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DAL N. 37 DEL GIUGNO 2002 DI "FUTURE SHOCK"

[Direttore Prof. Antonio Scacco, Via Papa G. Paolo I,  6/M - A, 70124 Bari - La rivista ha pure un'edizione elettronica]

Valerio Evangelisti, Il corpo e il sangue di Eymerich, Urania, Mondatori, 14 - 4 - 1996, pp. 207, lire 5.500 e Piccola biblioteca oscar Mondadori, 2005, euro 8,40 (quest'edizione acquistabile anche nella libreria elettronica iBS - internetbookshop: clicca)

 

Recensione di Guido Pagliarino

            Non è inquadrabile in un solo genere la saga dell’inquisitore Eymerich creata da Valerio Evangelisti. Fantascienza? Fantastoria? Neogotico? Poliziesco? Il Poe, precursore del moderno giallo e tormentato autore di nere storie angoscianti, è uno dei maestri di questo scrittore. È un debito ch’egli riconosce apertamente, il romanzo di cui sto trattando termina con una bella citazione, quasi un ricalco proiettato nel prossimo futuro, di “La maschera della morte rossa”. Certo ha pure avuto importanza l’amore di questo scrittore per la storia, sebbene i suoi saggi, scritti prima dei romanzi, riguardassero quella contemporanea, con particolare interesse per il socialismo. Quindi, storia-fantastoria e neogotico. Le vicende medievali del protagonista, in tutti i romanzi della saga, scorrono alternandosi a fatti contemporanei e del prossimo futuro, i quali dipendono, per qualche ragione, dalle prime; quindi, pure (tremenda) storia futura prossima. Nicolas indaga, cerca prove, trova colpevoli. Queste opere presentano anche aspetti del poliziesco. Tuttavia, Eymerich è pure giudice e persino boia, che ammazza centinaia di persone in un colpo e cui non importa che, tra queste, ci siano possibili innocenti; e che si limita ad esiliare colpevoli, anche primari, se gli è utile per colpire il mucchio. Per lui, il concetto di persona che ci ha portato Cristo non conta, gl’importa difendere il potere della gerarchia ecclesiastica.

“Il corpo e il sangue di Eymerich”, terzo romanzo della saga in ordine di stesura, si apre su di una riunione, in una misteriosa caverna, di esseri con nomi di bestie o di mostri mitologici, forse extraterrestri, può pensare il lettore sulle prime: bell’artifizio letterario, e pure morale, ché si tratta in realtà di un’adunanza del Ku Klux Klan in Georgia, nell’anno 1952. Vi partecipa il giovane scienziato Lycurgus Pinks, il cui fine è l’eliminazione totale dei nigros, in cui comprende i semiti arabi ed ebrei, che non s’assoggettano ai bianchi. Interessante, fra l’altro, è qui la citazione del regista Griffith, grande autore del muto ma pure fanatico esaltatore dei “Klansmen” ottocenteschi. D’accordo coi servizi segreti statunitensi, il dottor Pinks ha studiato una malattia latente nel sangue delle persone di colore, ch’egli vorrebbe attivare e scatenare contro quelle che, per lui, sono sotto-razze. C’è la possibilità che il male entri in alcuni ariani, ma per quel fanatico, proprio come per Nicolas coi suoi roghi collettivi, il danno è trascurabile, rispetto al vantaggio di annientare tutti i nigros ribelli alla razza bianca. In alternanza, via via, alle vicende del protagonista Eymerich, l’autore segue quel mostruoso personaggio nel corso dei decenni, con richiami alla recente, reale storia: in Stati del sud degli USA, nell’Algeria prossima all’indipendenza…; ed ogni volta il dottore scatena la malattia, complici sempre i servizi segreti, con numerosissime vittime; fino a un tempo futuro a noi prossimo, quando il male, per un errore di calcolo, si è ormai diffuso negli Stati Uniti alla popolazione d’ogni colore, con un finale peraltro aperto a nuove vicende, come si può capire da un racconto pubblicato in appendice, finale in cui la morte rossa trionfa. L’autore ci parla d’una scienza del tutto anti-umanistica; nel caso, d’una ricerca biologica volta non a curare, ma a distruggere esercitando volontà di potenza. Anche più interessanti sono le parallele avventure medievali dell’inquisitore Nicolas. L’ho detto, a questo prete importa solo l’ordine. Non cerca la giustizia cristiana, è un collettivista disumano, non un personalista. Il personaggio non mostra una conoscenza del vero cristianesimo, a differenza dell’inquisitore Nicolau Eymerich, realmente esistito, dottissimo in dottrina come risulta dal suo agghiacciante Manuale dell’inquisitore, recentemente ripubblicato in due diverse edizioni[1]; a meno che, volutamente, il Nicolas di fantasia usi la menzogna teologica per giustificare pubblicamente il suo operato: madornale è la sua affermazione che il sangue dell’Eucaristia è quello del Padre, con la quale legittima la propria istigazione a un parricidio orrendo da parte di una figlia e alla libagione col sangue del padre sgozzato: la giovane è portatrice di quella stessa malattia che, secoli dopo, il dottor Pinks diffonderà. Nicolas dimostra invece una notevole conoscenza delle sette gnostiche, forse maggiore di quanto se ne sapesse in quei tempi, ben prima della scoperta nel 1946 della grande biblioteca gnostica di Nag Hammadi.[2]. L’Eymerich dell’Evangelisti non è un sadico a differenza del domenicano Arnauld de Sancy, suo provvisorio superiore in quest’avventura, che gode nel riaprire con le unghie la ferita d’un morente neo-gnostico che ha fatto torturare; ma pur provando ogni volta un certo qual malessere nel suo intimo, quanto a torture efferate Nicolas non gli è affatto inferiore, anzi: una questione di puro dovere, si sarebbero giustificati gli aguzzini nazisti secoli dopo. Mi pare che l’autore non diversamente consideri gl’inquisitori ecclesiastici, verso i quali mostra semplicemente disgusto. È animato da orrore per ogni forma di razzismo e per la violenza in generale, che rappresenta crudamente per suscitarne condanna. Corre però voce che, in contrasto con le sue intenzioni, non pochi lettori restino affascinati da tale macelleria, tanto da considerare simpatico il diabolico fanta-inquisitore.

Mi interessai a suo tempo del fenomeno dell’Inquisizione. Forse anche per questo sono stato invitato a stendere la presente recensione[3]. Direi che l’Inquisizione (meglio sarebbe dire le Inquisizioni[4]) non fosse né quella presentata oggigiorno da alcuni intellettuali cattolici, che tendono a sminuirne di molto la violenza, né quella descritta dall’Evangelisti, a sua volta fantastica, all’altro estremo. Dobbiamo aver presente che la mentalità delle persone di quei tempi era in parte diversa dalla nostra. Si pensi a Dante, che immaginò i gironi del suo inferno come una serie di enormi camere di tortura ed esaltò san Domenico e l’ordine di inquisitori da lui fondato quali salvatori della Chiesa dalle eresie; e certo il Poeta non era un difensore del papato e men che mai era a questo sottomesso: si pensi alla sua teoria dei due soli, alle accuse contro il potere politico del pontefice. Aveva persino preparato un posto all’inferno a quel papa Bonifacio VIII ch’egli duramente, senza paura, condannava, per certi aspetti, ingiustamente; ma non è questa la sede per dilungarsi su quest’argomento [5]. Sicuramente l’Inquisizione esercitò grave violenza, andò contro l’insegnamento e l’esempio di Cristo, pretese di estirpare con la forza la gramigna invece di tentare di convertirla, solo, con la parola e con l’esempio, non ebbe piena fiducia nella Provvidenza. Anche maggiore fu, tuttavia, la violenza del potere secolare, che sovente processava presunti eretici e streghe di propria iniziativa ed elevava roghi: i processi ai Templari e a Giovanna d’Arco, cui intervennero sì prelati, ma subordinati al potere reale, sono solo due, anche se più famosi, tra i molti casi, per non parlare dei successivi processi e condanne da parte di tribunali protestanti: ricordiamoci che negli Stati protestanti, il potere religioso era del tutto soggetto a quello politico. Tornando all’Inquisizione, diversamente dal personaggio Nicolas nessun inquisitore aveva licenza d’uccidere personalmente, ed ogni presunto eretico doveva essere sottoposto a processo, secondo una precisa procedura. Resta il fatto d’un tradimento oggettivo dei princìpi evangelici, nell’idea sbagliata di difendere il cristianesimo: non di sostenere il potere politico della gerarchia però, diversamente dall’Eymerich dell’Evangelisti. Poiché il papa Giovanni Paolo II ha chiesto perdono a nome della Chiesa, non si può dubitare ch’egli abbia riconosciuto nell’azione dell’Inquisizione un’offesa grave all’Amore. Peraltro, il mondo attende ancora le richieste di scusa dei discendenti, in senso morale, dei torturatori e abbruciatori protestanti, degli eredi ideologici dei ghigliottinatori giacobini e dei comunisti, dei nazifascisti e di tanti altri.

“Il corpo e il sangue di Eymerich” è un bel romanzo fantastico, d’impronta collettivista. Non una sola figura cattolica positiva troviamo nell’opera, a differenza che nella realtà storica. Non lasciamoci influenzare dal suo clima cupo, leggiamolo per divertimento senza demoralizzarci quanto al futuro dell’uomo e al nero avvenire scientifico che prospetta. La scienza può essere del tutto umanistica, purché si basi su quell’etica personalista che bisogna diffondere, cominciando col non formulare giudizi collettivisti e col distinguere tra personalismo ed individualismo, tra libertà-diritto-dovere e cinica licenza.

Guido Pagliarino


[1] Nicolau Eymerich, Manuale dell’inquisitore, a cura di Rino Cammilleri, Piemme, 1998; Nicolau Eymerich, Manuale dell’inquisitore, a cura di Louis Sala Molinas, introduzione di Valerio Evangelisti, Fanucci, 2000. I commenti alle due edizioni sono fortemente ideologici e diametralmente opposti, rispettivamente filo-cattolici ed anti-cattolici.

[2] La parola gnosticismo deriva da gnosi = conoscenza. Si definisco gnostici quei gruppi filosofico-religiosi antichi che hanno a base del loro pensiero i concetti del dualismo tra bene e male; degli spiriti intermediari tra Dio e uomo e di esseri, diversi da Dio, plasmatori del mondo materiale, considerato malefico; di animo quale scintilla divina imprigionata nella materia; che ritengono necessario conoscere secondo una via non solo razionale ma mistica per liberare l’animo e condurlo alla luce divina; che contemplano un essere soprannaturale salvifico, rivelatore della vera conoscenza; che accolgono l’astrologia come componente del sapere; sette che praticano riti esoterici, così come tengono segreto l’elenco e ritengono limitato il numero di coloro che la rivelazione gnostica possono ricevere. Nello gnosticismo cristianeggiante, decisamente non evangelico, Cristo non è il rivelatore dell’Amore ma della Sapienza. Il pensiero gnostico non è mai stato veramente sconfitto, ha attraversato i secoli ed è ancora presente nel nostro tempo, persino in frange cattoliche. (Cfr. Guido Pagliarino, “2000 anni di sfida, Cristianesimo e Gnosticismo”, saggio, e-book MS Reader, Ed. Superlibri, scaricabile gratuitamente dal sito editoriale, http://www.solotesto.com/, andando alla pagina “Archivio Autori”, lettera P. © 1999 – 2002 dell’autore).

[3] “Un’indagine del ‘500”, romanzo, II ed., cartacea, Prospettiva Editrice, 2002; I ed. e-book, Edizione d’Autore, 2001. © 1992 – 2002 di Guido Pagliarino. L’opera derivò da una mia ricerca che, invece di portare ad un saggio come nella primitiva intenzione, si risolse in romanzo, nel quale sintetizzai le conclusioni cui ero giunto entro considerazioni di alcuni dei personaggi.

[4] Quella papale monastica, cosiddetta medievale, istituita contro il catarismo ed altre eresie da papa Innocenzo III nel 1231, con la nomina dei primi inquisitori domenicani e francescani (quella di Eymerich); l’Inquisizione spagnola, concessa da papa Sisto V nel 1478 su richiesta della Regina Isabella di Castiglia e del re Ferdinando d’Aragona, inizialmente per scoprire ebrei e musulmani falsamente convertiti al cattolicesimo; l’Inquisizione romana, che per i territori italiani sostituì nel 1542 quella papale monastica, volta soprattutto contro lo scisma protestante.

[5] “[…]Essenziale è il principio che tutti devono rendere conto a Cristo, anche chi detiene il potere; anzi questi per primo deve avere un comportamento cristiano e rispettare la libertà di coscienza dei governati. Non è sempre così, di fatto, per tutti i potenti e meno ancora lo sarà dopo il 1000, anche per membri della gerarchia ecclesiastica, ma in questo caso, se identificati, i cattivi capi devono perdere il loro seggio e se a volte la Chiesa, neppure con la scomunica, ha la forza di abbatterli, nessuno deve loro obbedienza perché essi sono contro Gesù-Dio e, quindi, contro la persona cristiana. È secondo questa logica che si deve considerare la lotta per le investiture tra Papato e Impero che avrà inizio nella seconda metà dell’undicesimo secolo e solo formalmente si concluderà nel 1122 con l’accordo di Worms, continuando di fatto sino a papa Bonifacio VIII […] Ciò non toglie che, contro quel principio, si assista non raramente anche a indebite e a volte pressanti ingerenze politiche. In pratica l’azione del Papato ha tonalità diverse a seconda delle personalità dei diversi pontefici e della varie situazioni storiche. È iniziato, pure in membri della Gerarchia, il millennio della decadenza dei valori spirituali e dell’affermazione dei valori materiali. Questo intromettersi, di fatto, anche politicamente e in modo massiccio, vale particolarmente per papa Bonifacio VIII, che siede in Cattedra quando non solo la mentalità di chi governa l’Impero e i nuovi regni è ormai da tempo profondamente mutata rispetto al millennio precedente, ma sta cominciando a sorgere la mentalità laica”. […] “Bonifacio è certamente uomo autoritario all’estremo, nonché nepotista e forse simoniaco; profondamente antipatico, stando ai profili che ce ne sono giunti. Qui però il punto è se, come papa, adempia durante il suo pontificato il suo dovere spirituale“ […] “la lotta di questo pontefice, le cui ragioni e fini egli manifesta al mondo con la bolla Una Sanctam, contro i sovrani e soprattutto contro Filippo il Bello re di Francia, è coerente col principio originale del cristianesimo della libertà di coscienza dei cristiani dall’arroganza del potere politico“ (Cfr. Guido Pagliarino, “La volontà di coscienza” saggio, I edizione, Torino, 1997 (esaurita); e-book MS Reader, 2001, scaricabile gratuitamente dal sito NetEditor alla pagina http://www.neteditor.net/lib/scarica.php?opera=2795 . © 1997 – 2002 dell’autore).

 

AA.VV. Mondi possibili e impossibili, antologia a cura di Vincenzo Blandamura, Edizioni Il Foglio, 2002, pagg.116, €  6

 

 

Recensione di Guido Pagliarino

Ho letto con interesse quest’opera collettiva di scrittori italiani di fantascienza. Gli autori sono giovani o giovanissimi, nati fra il 1960 e il 1985. Alcuni hanno vissuto, almeno in parte, gli anni in cui s’è consolidata la società occidentale nichilista delle morali soggettive; gli altri si sono semplicemente trovati a nascervi.

Il curatore, Vincenzo Blandamura, ha voluto presentare un campione di “mondi che ancora non esistono, che forse esisteranno, o che non esisteranno mai” e che, con qualche eccezione, sono proiezioni di timori di questi giovani autori: mondi dove un progresso sociale è assente, perché la storia porta, in corsi e ricorsi, società cattive; precisamente, il Blandamura scrive: “[…] il nostro cammino si snoda dritto verso il futuro. Tanto, poi, il cerchio si richiude sempre”.

La prima opera, del curatore stesso, s’intitola “Diario Mentale”. Il luogo dell’essere umano rapito da alieni è qui ribaltato, è lo straniero ad essere prelevato da terrestri sul suo pianeta ed usato come cavia di laboratorio. Centrale al racconto è l’evoluzione, che pure sulla Terra, e non solo sul pianeta dell’alieno, potrebbe, un giorno, condurre ad esiti, per noi, sorprendenti.

“Destino terminale”, di Gordiano Lupi, tratta i temi della macchina dotata di coscienza e della cinica indifferenza di esseri umani.

“Il grumo vermiglio”, di Emiliano Maramonte, contempla un caso di attacco alla Terra da parte di una razza che gode nell’uccidere dando sofferenza, come tante volte, purtroppo, e massicciamente nel tempo più recente, è accaduto in guerre e rivoluzioni terrestri. Intuirei, per quel “grumo vermiglio”, ma posso sbagliare, un voluto richiamo al film “Blob”.

“Atlantide”, di Marco Vallarino, riguarda universi paralleli. Sebbene il contesto sia del tutto diverso, mi è venuto di pensare al romanzo breve di Mark Twain “Viaggio in Paradiso”, dove il protagonista assiste ad una sfilata gloriosa dei sommi poeti d’ogni tempo con, alla testa, il più grande di tutti loro, un oscuro commerciante il cui poema non aveva trovato editori in questo mondo. L’idea è però, quasi di certo, indipendente, riflette forse il personale timore dello scrittore di non raggiungere piena fama. Egli tratta di quei bei sogni che, almeno nel nostro universo, non si sono realizzati, ma altrove avrebbero potuto concretarsi; comunque, con un tragico finale: in nessun luogo si può trovare soddisfazione piena.

“L’inglese”, di Barbara Becheroni, ambientato su di un altro pianeta, ha per tema la figura dell’europeo individualista e povero in un lontano paese straniero, che tenta di trovare il molto denaro necessario per tornare a casa. L’autrice tiene forse conto di certi classici non fantascientifici e il suo racconto avrebbe anche potuto avere ambientazione sulla Terra, nel passato, sostituendo al pianeta alieno uno Stato agli antipodi dell’Europa e all’astronave del ritorno un veliero.

Ne “L’astronave nel giardino”, di Matteo Gambaro, il difensore della Terra da un attacco alieno è un cane da guardia. Senza ch’io sminuisca il valore degli altri racconti, è quello che ho apprezzato di più, nel suo divertito minimalismo.

Ne “Il brutto caldo”, di Riccardo Coltri, che l’autore ha scritto quale omaggio al Bradbury di “Cronache marziane”, la temperatura sul pianeta è salita irrimediabilmente a causa del primo lancio spaziale verso la Luna, il 2 agosto 1983, rendendolo quasi un inferno. Coloro che hanno denaro da spendere possono, però, aspirare a un provvisorio paradiso frutto di residua tecnologia. La data del lancio ci fa intuire che l’ambiente non è quello del nostro mondo, bensì di un’Alter-Terra, e che il paradiso cui si viene virtualmente spediti è il nostro pianeta, ancora, bene o male, soggetto alle stagioni. Un positivo monito.

“Cuore di pietra”, racconto assai breve di Teresa Regna, segue il filone del celebre “La sentinella”, peraltro con una sua propria originalità.

“L’ospite”, di Angela Pasquali, è una sorta di diario del protagonista, che annota la sua decadenza fisica e mentale, non dovuta, com’egli crede invece fino all’ultimo, ai propri stravizi ed all’ambiente malsano in cui vive, ma a ben altro.

“S.D. (Il sonno dell’infante)”, di Luigi Boccia, immagina una prossima dittatura cattolica in Italia, che perseguita e punisce atrocemente i fumatori, essendosi scoperto che il fumo è causa di una nuova malattia. Nel racconto, la religione cattolica è “l’unica concessa dalla costituzione”: improbabile, data la quasi raggiunta scristianizzazione della società italiana contemporanea, dove i cattolici più o meno praticanti sono appena un 10% del corpo elettorale e gli altri sono indifferenti o addirittura assai critici, persino indignati, quando il Magistero richiami pubblicamente i fedeli, come suo dovere, all’etica neotestamentaria; sorridendo: Tutti possono esprimere liberamente le loro opinioni, esclusi i cattolici perché li dichiariamo oscurantisti, potrebbe, semmai, leggersi in una futura Costituzione.

“Terra anno tremila”, di Monica Cirronis, tocca a sua volta il tema dell’oscurantismo religioso, qui non del tutto improbabilmente, considerando i bin laden del nostro tempo: nel futuro si puniscono con la morte le donne non coniugate che hanno rapporti sessuali e, ancor peggio che in certi Stati islamici integralisti contemporanei, si uccide pure il bambino, quando restino incinte. C’è un finale di debole speranza.

“Alfazeta”, di Gabriele Linari, più che un racconto mi pare un breve atto unico teatrale, che può trovare la sua ottima sede sul palcoscenico, a più voci: s’è conosciuta la verità ultima interrogando lo spazio profondo, i cittadini non devono ricordarla, chi governa ne avrebbe danno, e le loro memorie vengono cancellate; ma la poesia e l’amore… Un’opera in cui è presente, di fondo, una certa qual religiosità, nonostante, a un certo punto, l’esclamazione “Cristo […]!” che qui mi pare inutile, appiccicata.

L’ultima opera,“I cacciatori”, è di Mario Natangelo, il più giovane degli autori. Presenta un Marte, anno 2812, lottizzato fra le diverse nazioni ormai federate – c’è un “esercito terrestre”. Gli Stati Uniti d’America fanno la parte dei cattivi: nonostante la formale unione con gli altri Paesi, per violente vie traverse vogliono appropriarsi di tutto.

A parte che per alcune opere, non politico-sociali, trovo insomma nell’antologia un’idea assai negativa del futuro.

Certo è che, in ogni tempo, nel campo del mondo sono stati assieme grano e gramigna, che questa mai è stata estirpata, così come, peraltro, la saggezza evangelica annunzia da duemila anni.

Il progresso sociale è ormai sentito, da tanti, come utopia. Un progresso però può esserci, nella coscienza del singolo essere umano, ed ha nome Amore. L’astratto corpo sociale ed il suo capo, lo Stato, non possono amare; ma i singoli, le persone, sì. Si tratta di non aspettarsi di ricevere, ma di dare per primi. Nei giovani la solidarietà è presente, come minimo nei rapporti fra amici, certe volte molto al di là; ma nella maggior parte dei casi, senza nutrire speranze per l’avvenire. Lo so per dirette conoscenze e ne trovo conferma statistica in un saggio, per nulla confessionale nonostante certe conclusioni, del politologo Roberto Cartocci, “Diventare grandi in tempi di cinismo”[1]: tempi di istituzioni screditate, diffidenza verso gli altri, sfiducia negli ideali politici del recente passato. Da questa ricerca, su di un campione di seimila studenti nati fra il 1977 ed il 1981, emerge che si può divenire cinici non per vocazione, ma per presunta necessità, pur sapendo che non si tratta d’un valore, ritenendola, nell’assenza d’informazione, indispensabile alla sopravvivenza nella nostra società. Eppure, soggiunge l’autore, c’è un grido che chiede comunità, e che per non pochi giovani si concreta in forme di volontariato. Il dato che emerge con forza dalla ricerca del Cartocci è questo, che gli oratori e le parrocchie sono oggi una delle poche palestre di organizzato civismo nel nostro Paese, c’è gioia e lavoro positivo grande presso gli studenti cattolici i quali vivono la loro fede convinti, in una maniera fortemente attiva verso il prossimo. Se, come suppongo, fra tali giovani, studenti e no, si trovano autori di fantascienza, mi piacerebbe leggere un giorno anche un’antologia dei loro racconti, sì sugli umani drammi, come sempre è stata e sarà la vita, ma piena di concreto ottimismo personalista e insieme, come d’altronde “Mondi possibili ed impossibili”, libera da inutili utopie collettiviste (in senso lato); scherzando (in senso stretto): che gran libro di fantastoricismo è “Il Capitale”!

Guido Pagliarino


[1] Roberto Cartocci, Diventare grandi in tempo di cinismo, Il Mulino, pp. 282, € 18,50