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LEGGI UN ESTRATTO DAL ROMANZO
"IL POETA E IL COMMITTENTE":
(omissis)
III
(omissis)
...............
Proprio quella sera avevo subito la prima aggressione. Avevo pensato a una rapina d’un balordo; solo al secondo tentativo d’ammazzarmi, non molto prima della mia partenza, avrei capito che qualcuno mi voleva cadavere.
Mentre stavo uscendo di casa per recarmi dall'amico, sul pianerottolo un uomo mascherato con un passamontagna che m'attendeva dietro all'ascensore mi s'era avventato contro con un coltello in pugno; ma non era riuscito a colpirmi, con alcune mosse dell'arte marziale che avevo appreso in Pubblica Sicurezza l’avevo messo in fuga giù per le scale. Appena giunto da Vittorio gliene ne avevo parlato. Pure lui aveva pensato al tentativo di rapina di uno spostato: "Domani vieni a presentare denuncia", m’aveva detto, "anche se sarà un po’ difficile che l’individuo sia identificato".
Dato che nulla m’era stato rubato, avevo deciso di tralasciare.
IV
L’amico era uomo cinquantenne sul metro e sessantacinque, una volta con una folta capigliatura riccia ma ormai volto alla calvizie: per bilanciare, da qualche tempo s’era lasciato crescere la barba. Nonostante la sua esteriore allegrezza, era persona fondamentalmente triste. Divenuti amici dopo l’attentato alla fine del ‘57, Vittorio, che nel frattempo s’era sposato, era stato vittima d’un grave dispiacere. S'era tenuto dentro per mesi il suo dolore, fino a che un giorno in cui doveva essersi sentito particolarmente sconfortato, s'era confidato con me : "Col mio poeta e amico preferito!". Era accaduto che la sua giovanissima moglie avesse conosciuto un importatore americano che per i suoi commerci era in quei giorni a Genova, dove allora eravamo di stanza, e fosse fuggita con lui a New York ottenendo in America lo scioglimento del matrimonio e risposandosi coll'amante. In Italia non c’era ancora il divorzio, per cui Vittorio era rimasto coniugato con la traditrice; ma una volta m’aveva detto che, se pure ci fosse stato, come cattolico praticante lui non se la sarebbe sentita, di richiederlo; aveva aggiunto però che, purtroppo, aveva vocazione alla coppia. Dunque, nonostante il suo cattolicesimo non era riuscito per molto a rimanere solo.
Quella sera a cena, un appartamento in via Cernaia, vicino alla Questura, ci aveva servito e, come ormai d'abitudine, tra una portata e l'altra s’era seduta con noi a tavola una bruna ventinovenne, Carmen, una formosetta simpatica e belloccia che sapevo esercitare per l'amico, oltre a quella di governante, intime funzioni.
Nell'ormai lontano 1959, in occasione del primo invito a cena di Vittorio dopo il nostro trasferimento da Genova a Torino, lui me l'aveva presentata nella sola prima veste e lei, per quella volta, non s'era seduta con noi; ma dall'atteggiamento confidenziale che comunque mostrava, avevo sospettato. "La guagliona è della mia Napoli", s'era confidato già quella volta l'amico, mentre Carmen era in cucina a preparare il caffè: "È un'orfana senza una lira che m’hanno mandato i miei genitori: forse già te l’avevo detto quand’era arrivata" - avevo assentito -: "Francamente, ero stanco di pizzerie; e anche di essere... solo. Lei ha diciannove anni... come mia moglie quando ci sposammo. Io, lo sai, ne ho di già quaranta. Eppure, sai com'è, è finita così, che siamo ormai... quasi come sposati. Il guaio è… che è ancora minorenne. Perciò tieni per te la sua età": non aveva potuto trattenere un sorriso imbarazzato; poi: "Va beh, lo so che faccio male, che come cattolico dovrei fare il casto divo; ma credo che il cielo capisca la mia situazione".
"Lo spero", avevo fatto eco meccanicamente, senza accorgermi d'aver alimentato i suoi dubbi, sui quali si sarebbe arrovellato per anni. Me li avrebbe infine manifestati, in occasione d'un penoso avvenimento di cui dirò a suo tempo. "Certo, per voi è una vita piena di problemi", avevo aggiunto. "Per me, ce ne sono già così tanti altri nella vita che almeno quelli religiosi li ho sempre tralasciati".
"Non sei credente proprio per nulla?", m'aveva interrogato facendosi più serio.
"Mah, una volta ero del tutto ateo. Adesso… non lo so", avevo risposto esitante: "A volte... ma in definitiva, credo a ciò che vedo; e alla poesia".
"… e chi te la manda la poesia?", m'aveva incalzato, "Calliope da le melate labbra? La poesia è come l'amicizia; quella vera, dico: viene da Dio. Anzi, è uno dei segni dell'amicizia divina".
Non s'era più parlato per dieci anni di quel rapporto Dio-poesia, fino all'ultimo invito. A metà cena Vittorio m’aveva detto: "La sai 'na cosa? ‘O’ premio ti viene da o’ cielo; come la tua poesia. Ricordi che ti dissi tanti anni fa? È Dio la vera e sola Musa".
"Anche per quelli come me?".
"Si capisce! Se son puri di cuore, però; e dimmi, tu lo sai perché i versi non dànno soldi?".
"So che ne direbbero i soldati di monsieur de La Palice: "Perché hanno pochi lettori".
"Uh, e chista 'ccà ha da esse 'na risposta?! No, non li dànno perché sono cosa dello Spirito Santo; e pure ti dico che la poesia bella viene ai poeti che hanno lo Spirito: tu sarai anche un repubblicano storico, un non credente, ma sei idealista".
Ebbene, ero rimasto per un attimo interdetto: dal tempo della vendita di quei venti sonetti al finanziere infatti, non avevo scritto più nemmeno un verso. No, avevo concluso quella volta, puro caso!
V
Buon per me che, a differenza dell'amico, fossi rimasto magro e agile come un tempo e mi sentissi dentro la stessa forza di quand'ero stato ragazzo. Altrimenti quel giorno non me la sarei cavata.
Mancava un paio di giorni alla mia partenza per New York. Nel primo pomeriggio ero uscito per recarmi alla Gazzetta del Popolo. Avevo prima firmato, per qualche tempo, su uno dei più importanti fogli italiani, ligure ma con un'edizione torinese, di proprietà del finanziere Angelo Tartaglia Fioretti, capo d'un enorme gruppo economico; ma dopo che, senza avvisarne alcuno, grazie alla mia posizione di giornalista pubblicista e non professionista avevo preso a collaborare anche con l'altro giornale, quotidiano avversario delle concentrazioni economiche e favorevole a un’economia sociale, il primo non aveva più stampato i miei scritti. Al mio perché mai? la risposta era stata esuberanza di costi. Non mi avevano neppure detto ti chiediamo di scegliere. M'avevano semplicemente respinto, come s'io fossi stato un loro cavallo improvvisamente bizzoso che, senza bisogno di scuse, non si monta più. Me n'ero indispettito, tanto più al pensiero che era stato proprio il Tartaglia Fioretti a comprarmi, mesi prima, quei venti sonetti. Avevo finalmente capito che, anche in quell'occasione, ero stato trattato come una cosa che si può acquistare e buttare quando si vuole.
Non avevo ancora l’auto. Arrivando a piedi da casa mia facendo la solita strada, via Giulio, via della Consolata, via del Carmine, all’angolo tra questa e corso Valdocco, ormai presso la sede del quotidiano, mentre attraversavo sul verde, un furgone parcheggiato era partito all'improvviso puntando diritto su di me. Con un tuffo l’avevo evitato, proprio appena, limitando i danni alle mani spellate; e mentre il mezzo fuggiva, ero riuscito a prendergli la targa. Dopo aver scritto la mia nota al giornale, un poco sotto shock e pensando di continuo a chi potessi avere per nemico, m’ero precipitato in Questura da Vittorio. Come avevo pensato, il furgone era stato rubato. Nella mia denuncia l'amico aveva fatto annotare pure l'aggressione precedente, che ormai non si poteva più ritenere con sicurezza a scopo di rapina.
"Non hai nessun sospetto, che so, uno sgarbo?" m’aveva chiesto il vice questore.
"No, vado d'accordo con tutti".
"Già, potrebbe essere la vendetta di qualcuno che avevamo mandato dentro: con tutte le indagini che abbiamo condotto assieme, e con tutta la gente che abbiamo sbattuto in gattabuia... Forse sarà bene che mi guardi anch'io".
Da quel momento ero stato assai cauto; e fino al mio arrivo negli Stati Uniti null'altro di male m’era successo.
(omissis)
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