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I SATANASSI DI TORINO

di Guido Pagliarino

 

I

 

Verso le 22 una nostra camionetta del reparto Celere di ritorno in caserma si era imbattuta nel cadavere del commendator Verdi, ucciso, secondo la prima impressione, a botte in testa su cui presentava gravi ematomi. Il vecchio doveva essere stato accoppato da poco, perché il corpo era ancora tepido. Era steso prono sul marciapiede all’angolo tra corso San Maurizio e via Giulia di Barolo dove il defunto, come già sapevamo, aveva avuto domicilio.

A causa del delitto, le cose per noi si erano complicate…

…no, è bene che io torni indietro di qualche giorno: al 19 giugno 1961:

A Torino c'era vento. La testa aveva preso a dolermi sin dalla notte, tanto che quasi non avevo dormito. Ero arrivato in Questura con un'espressione da zombi.

"Vicebrigadiere Ranieri Velli!" aveva esclamato con finta severità l'amico e superiore Vittorio D'Aiazzo: "Tu si' 'a muorte che cammina; e che? si' 'nnamurato? Anche i freddi torinesi come te si struggono di mal d'amore? Ah, già", aveva sorriso con falsa sorpresa alzando un po' il mento, "dimenticavo che tu si' 'nu poeta!".

"Emicrania: il vento", avevo risposto senza riuscire a restituire la battuta; e m'eromi ero seduto alla mia scrivania, nell'atrio dell'ufficio dell'amico commissario, iniziando a scorrere i documenti lasciati la sera prima. Avevo come un chiodo ficcato nella tempia destra. Speravo proprio che quella giornata sarebbe stata tranquilla; e mi illudevo.

 

II

 

   Verso le dieci e mezza, era arrivata una telefonata per Vittorio, dalle Carceri Nuove. Un detenuto in attesa di giudizio, la notte prima, era stato picchiato e brutalizzato analmente nella sua cella con una scopetta da water, da due ergastolani che lui, contro ogni aspettativa, aveva poi denunciato. Ora, ricoverato nell'infermeria del carcere, aveva chiesto di parlare col D'Aiazzo.

   In quei tempi ancora pre-cibernetici, poteva succedere che un commissario s'occupasse personalmente d'un caso, invece d'affidarsi ai computer lasciando il resto ai suoi dipendenti: "È 'nu strunzo che avevo messo dentro l'anno scorso, mentre tu eri in licenza. Quasi un anno e aspetta ancora il processo! Bah, andiamo a parlargli".

   "Cos'aveva fatto?" avevo chiesto senza molto interesse. Per fortuna il vento s'era un poco attenuato, e pure l'emicrania.

   "Aveva sverginato con la forza 'na quattordicenne; e credo proprio che lo spazzetto non sia il primo compenso che gli dànno. I violentatori, là dentro, sai che fine fanno. Si vede che chista vo'ta non ne ha potuto proprio 'cchiù, e li ha denunciati".

   "Gli han dato solo il fatto suo".

   "Mm... forse; ma avrebbero almeno potuto aspettare la sentenza, quegli altri strunzi! Comunque, se non lo chiudono in isolamento, quello là mica campa; eh, no".

   Le Nuove, corso Vittorio Emanuele, non sono lontane dalla Questura, corso Vinzaglio. C'eravamo avviati a piedi. Strada facendo, anche per richiamare a sé stesso le vicende di quell'uomo, tale dottor Carlo Verdi, ventinovenne, il commissario m'aveva raccontato:

   "È il figlio unico d'un industrialotto meccanico, anzi più un artigiano che un industriale, con una quindicina di operai compresa la violentata; ma ora l'azienda è chiusa e il padre è finito in manicomio. È un vecchio sull'ottantina: aveva avuto il figlio già a una certa età, sposandosi la segretaria. Quanto a sua moglie, è morta investita da un'auto".

   "Famiglia fortunata!".

   "Già. Comunque, il figlio è anche 'nu strunzo; e dire che ha una laurea... in psicologia mi pare, o qualcosa del genere. A farla breve: con la scusa degli straordinari serali, che poi per la giovane età non poteva nemmeno farle fare, se l'era tenuta in ditta dopo la chiusura, la quattordicenne, e se l'era strombazzata. Solo che la ragazza non ne aveva avuto nessuna intenzione, e così era venuta da noi con papà e mammà a denunciarlo. L'avevamo arrestato a casa sua come uno scemo, verso l'una di notte, in pigiama. L'industria, lasciata al genitore che nel frattempo aveva dato i numeri per la vergogna, aveva chiuso dopo pochi mesi".

    "Pochi mesi sono pochi perché una ditta chiuda".

    "Mah, va' a sapere".

    "Forse la ditta traballava già dapprima".

    "Non so; ma, scusa, di questo, a noi, che ce ne fotte!?".

 

III

 

   "Abbiamo chiamato la Questura", s'era quasi scusato con Vittorio il maresciallo che comandava il braccio infermeria, "perché il detenuto ci aveva detto d'avere nuove rivelazioni da fare; ma che ne avrebbe parlato solo con lei": il D'Aiazzo aveva potuto aderire perché non c'era ancora, in quel tempo, l'obbligo della presenza d'un magistrato agli interrogatori.

   "E quelli che l'hanno brutalizzato?" aveva chiesto.

   "Quei due hanno continuato a insistere che il Verdi s'era picchiato e sderenato da solo col manico dello spazzetto, davanti ai loro occhi. Hanno aggiunto che pensavano fosse impazzito. D'altra parte in cella c'erano solo loro tre, una volta accusati che altro avrebbero potuto inventarsi? Adesso sono in isolamento stretto".

   Carlo Verdi giaceva al fondo dell'infermeria, in una zona isolata con sbarre fino al soffitto: "Grazie, commissario, d'essere venuto", aveva esordito quando ci aveva visto, prima ancora che il maresciallo ci aprisse il cancelletto.

   "Spero che ce ne sia motivo".

   "Sì; ma parlerò solo a quattr'occhi".

   "Diciamo a sei, perché il mio aiutante deve prendere appunti. Maresciallo, ci vuole lasciare?".

   Non appena il custode era stato lontano, il prigioniero aveva esclamato: "Ribadisco che sono innocente!".

   "Uh! e mi avresti chiamato solo per questo?!": Vittorio aveva alzato gli occhi; poi, tirando un uff! e preso l'unico sgabello, s'era accomodato.

   "No", aveva intanto negato l'altro: "Per dirle che, sino ad ora, non me l'ero sentita di parlare; ma adesso non ce la faccio più: il processo non arriva mai! Quell'avvocatino d'ufficio non vale una cicca e ormai ne va della mia vita, se non verrò liberato al più presto. Inoltre, qui dentro soffoco".

   "Starai anche peggio dopo, in stretto isolamento. Per proteggerti ti metteranno in cella d'isolamento, no?".

   "Sì, me l'hanno promesso; e pazienza per la mia quasi-claustrofobia".

   "Insomma, cos'avresti da aggiungere?".

   "Mi conceda di andare con ordine, per piacere". Vittorio aveva fatto un cenno d'assenso, e il Verdi aveva iniziato: "Dopo la laurea, Pedagogia con indirizzo psicologico, volevo impiegarmi nell'assistenza sociale" - m'era proprio venuto un ghigno, mentre Vittorio era rimasto serio - "ma papà non era più in piena salute mentre la mamma non era all'altezza di dirigere la ditta. Dunque, molto malvolentieri, avevo accettato d'entrare in fabbrica, cosa cui i miei tenevano moltissimo: la fabbrica era tutta la loro vita. D'altronde dovevo a loro il mio benessere e mi pareva giusto ricambiare".

   "Grande altruismo!" non s'era trattenuto il commissario, con un sorriso non buono.

   "La prego..."

   "Va bbuo', continua".

   "Dicevo che ero entrato in azienda. Avevo imparato in fretta, per fortuna: di lì a non molto, a mio padre erano state trovate cellule cancerose alla prostata. Non c’erano metastasi e, tolto l’organo, s'era ristabilito; ma aveva sempre avuto terrore del cancro e ne aveva subito un tale shock che, per molti mesi ancora dopo l’intervento, era stato depresso. S’era fatto fare visite ed analisi continue da medici diversi, senza venire in ditta. Intanto, con la procura che m'aveva dato, avevo fatto cambiamenti: la contabilità meccanizzata con le Audit (*) e la modifica della linea di produzione, su consiglio d'un ingegnere. Inoltre avevo licenziato due impiegate, non addestrate alle macchine contabili, assumendone un’altra sola, esperta; in più avevo mandato via due operai, grazie ai nuovi impianti più produttivi. Da quattordici, i dipendenti s'erano ridotti a undici. Questi all'inizio erano stati scontenti finché, vedendo che non si chiedeva loro nessun lavoro in più, avevano smesso di mugugnare. La ditta, modestamente, non era mai andata così bene! Circa un anno e mezzo fa mio padre era finalmente venuto in azienda, e sùbito aveva preteso di riprendere tutto in mano e di tornare all’antico. Visto che m'ero opposto, per prima cosa m'aveva tolto la procura. Poi, come se non fosse bastato, forse per farmi un infantile dispetto aveva assunto altri operai e quella dattilografa che m'ha rovinato, Giuseppina. Lo shock gli aveva sballato la testa; o forse gli sarebbe capitato comunque, per l'età. In ogni caso, non sembrava più lui. Avevo capito a un certo punto che mio padre era giunto addirittura a odiarmi: pensi che, a differenza di mia madre, mai è venuto a trovarmi qui dentro, neppure nei primi tempi, quando non era ancora del tutto arteriosclerotico. La ditta aveva cominciato a perdere colpi, quindi a peggiorare velocemente. Il mio desiderio era stato dunque di abbandonare tutto, e l'avrei fatto se non fosse stato per mia madre: non volevo che lei pure finisse male per colpa di quel... di quel poveretto. Avevo stretto i denti. Avevo cercato, per quanto potevo, di oppormi alle iniziative assurde di papà, di obbligare i nuovi assunti a licenziarsi da soli, col trattarli male.  Mi ero attirato dunque l'odio del personale: coglione prepotente mi chiamavano, e neppure tanto di nascosto; e aggiungevano cose come viziato buono a niente. Erano incoraggiati dal fatto che papà mi lanciava anche lui insulti, davanti a loro, come malvagio e gran porco, e che dava sempre ragione a loro contro di me".

   "Vorrei capire dove vuoi arrivare. Forse, vorresti farmi credere ch'era stato un qualche tuo dipendente lazzarone, o addirittura tuo padre ottantenne e senza prostata, e non tu! a violentare la dattilografa?".

   "No, assolutamente. Semplicemente, Giuseppina non era stata violentata".

   "Andiamo! Le avevano trovato i segni freschi all'ospedale!" aveva esclamato Vittorio con irritazione.

   "N...no, senta, è questo che volevo dire: che qualcuno, certo, l'aveva sverginata; ma non in ditta".

   "… e perché mai la ragazza avrebbe accusato proprio te?".

   "Giuseppina per vendetta, la sua famiglia per chiedermi un risarcimento: cento milioni! Pensi lei, il valore di dieci appartamenti".

   "Inutile richiesta, visto che tu non ha più un soldo".

   "Già, ma non era ancora così; e anche adesso pensano che io i soldi ce li abbia, nascosti da qualche parte: così m'ha detto il mio legale. A parte questo, in ditta Giuseppina s'era mostrata fin dall'inizio un'incapace, che prendeva ogni insegnamento per un rimprovero. Così, più volte, l'avevo rimproverata sul serio, e aspramente. Aveva preso a odiarmi, come mostrava il suo viso ogni volta che mi guardava. Quanto al Corsati, suo padre, è una specie di mascalzone, il bullo del suo quartiere, come a suo tempo avevo saputo da un cliente che ha il negozio vicino a loro: conosceva di fama la famiglia e m'aveva confidato che anche i figli maschi erano teppa".

   "E chi l'avrebbe violentata, la ragazza, secondo te?".

   "Non lo so; ma non escludo che possa essere stato addirittura il padre; o i fratelli. So dall’avvocato che era stato usato un preservativo: evidentemente, chi l’aveva violentata s’era premurato che non restasse incinta. Io li considero tutti colpevoli di una macchinazione contro di me, per chiedermi un ingiusto risarcimento e come vendetta di quella disgraziata. La gente malvagia esiste! Basta leggere, per capirlo, la Psicologia della folla del Le Bon".

   "Va beh, ma a parte 'sto Le Bon, perché non me le avevi dette prima, 'ste cose?".

   "Perché ne andava della vita dei miei. Quella sera, una volta a casa dopo aver chiuso la ditta alla solita ora, e preciso che Giuseppina se n'era già andata..."

   "Piano, la ragazza era uscita con gli altri? Qualcuno può testimoniarlo?".

   "Purtroppo no, aveva chiesto d'andare via un po' prima per un appuntamento dal dentista, così aveva detto, e nessun operaio l'aveva vista andarsene perché era uscita dalla porticina dell'ufficio, che dà direttamente sul corso. Non vedendola con loro, potevano benissimo aver pensato che fosse rimasta con me."

   "Mm... e gl'impiegati dell'ufficio? Neppure loro l'avevano vista uscire?".

   "Solo mia madre e mio padre lavoravano in ufficio, oltre a me e Giuseppina. I miei tornavano sempre a casa un'ora prima della chiusura. C'era stata, fino a pochi mesi prima, anche un'altra impiegata, Pina, ma era andata in pensione. Ormai mi occupavo io della contabilità, dopo aver seguito il relativo corso: per ridurre un po’ i costi della ditta, capisce? Quando Giuseppina era uscita, in ufficio c'ero solo io".

   "Ho capito. Continua".

   "A casa, poco prima di mettermi a tavola coi miei, avevo ricevuto una telefonata di minaccia contro la loro vita: una voce in falsetto, non so se di uomo o di donna. Avevo pensato a uno scherzo e ai miei avevo detto ch'era stato uno sbaglio di numero. Non sapevo ancora nulla della violenza a Giuseppina. Era seguita un'altra telefonata verso mezzanotte, stessa voce che m'intimava di lasciarmi accusare se non volevo che i miei venissero assassinati. Di nuovo non avevo compreso, ma avevo preso a preoccuparmi; però neppure allora avevo riferito ai miei genitori. Quando, di lì a non molto, erano venuti ad arrestarmi, avevo compreso che non s'era trattato affatto d'uno scherzo".

   "Dopo l'avrai detto ai tuoi, no?".

   "Mai. Mia madre, ora, lo saprà dal paradiso, ma mio padre non sa ancora nulla. Mamma era una persona molto impressionabile, diciamo. Quanto alle condizioni di papà, lei le conosce. Non volevo che s'impaurissero".

   "Mm... avanti".

   "Lo stesso giorno ch'ero entrato qui, avevo avuto un messaggio intimidatorio, scritto con lettere di giornale. Sporgeva da sotto il cuscino della mia branda. Un altro l'avevo trovato in tasca il giorno dopo, infilato da chi sa chi: sempre scritto con ritagli. Dicevano praticamente la stessa cosa, che tanto mio padre che mia madre sarebbero stati uccisi se avessi denunciato qualcuno".

   "Quei due biglietti che fine hanno fatto?".

   "Li ho distrutti, così mi s'imponeva, pena la morte dei miei: nel water".

   Qui il commissario era passato spontaneamente al lei: "Dunque avrebbe preferito la galera piuttosto di far correre un rischio ai suoi; ma se quando l'avevo interrogata me l'avesse detto, delle due telefonate, i suoi non l'avrebbero corso, quel rischio. Li avrei fatti proteggere; e non si può escludere che lei avrebbe avuto la libertà provvisoria".

   "Ne dubito. Lei m'avrebbe davvero creduto?! e poi vede, commissario, io ho un carattere... come quello di mia madre, facilmente impressionabile. Anche per questo avevo studiato psicologia: per cercare di migliorare me stesso. Non sa quanto mi fosse costato essere duro in azienda! e a mia mamma volevo un bene... infinito. Mai avrei rischiato, anche minimamente, che le facessero del male". Qui il Verdi era stato colto da tosse nervosa. L'uomo era un biondastro minuto, che sotto le coperte s'indovinava non molto alto. Era pallidissimo, a parte le zone peste: faceva un po' pena, in quello stato. Bevuto un poco dell'acqua che aveva accanto su un tavolinetto, aveva ripreso: "Poi mia madre è morta lo stesso, investita da un'auto che è fuggita senza soccorrerla: un incidente, visto che io avevo taciuto. Quanto a mio padre, come saprà è in manicomio, che è peggio della morte; e comunque non penso che là corra rischi. I delinquenti non potevano prevederlo! Allora mi sono confidato col mio avvocato, per ottenere un supplemento d'istruttoria; ma... non ne ho avuto nulla. Un vero incapace, quell'individuo. Intanto, le violenze punitive contro di me, nelle docce, erano cessate, anche se quasi nessuno mi rivolgeva la parola; ma sono riprese stanotte per opera di due ergastolani che qualcuno qui dentro, certo complice dei Corsati, ha trasferito nella mia cella. Prima ero solo. Io credo... sì, credo che questa volta abbiano voluto intimidirmi e non, diciamo, punirmi. Purtroppo, m'ero lasciato sfuggire durante l'aria che mia madre era morta e mio padre in manicomio. In qualche modo, il padre di Giuseppina doveva averlo saputo; e ha trovato modo di far trasferire nella mia cella quei due delinquenti e buttarmeli addosso".

   "Lei è proprio certa che, questa volta, lo scopo fosse d'intimidirla e non semplicemente di farle del male?".

   "Sì, perché, come le ho detto, da tempo le lezioni erano finite. Inoltre, mentre mi brutalizzavano mi dicevano: Impara a stare zitto o finirai anche morto!".

   "Ma probabilmente", m'ero intromesso, "si riferivano alla violenza stessa".

   "Sì, più che probabile", aveva consentito il commissario: "Proprio lei, dottor Verdi, ha dichiarato d'essere un impressionabile. Resta tutta da dimostrare che volessero farla rinunciare al supplemento d'istruttoria. Se no gliel'avrebbero detto chiaramente, mi pare".

   "La prego, commissario, ormai cercheranno d'uccidermi! Voglio dire che i Corsati non solo mi hanno fatto brutalizzare perché continuassi a tacere ma hanno certo tenuto in conto che avrei potuto invece esasperarmi e denunciare la violenza; e allora, aver previsto di farmi uccidere qui dentro. Lei capisce che il mio omicidio apparirebbe causato proprio dalla mia denuncia contro quei due, non da altri motivi. I violentatori sono pluriergastolani che non hanno più nulla da perdere".

   "Mi sembra un po' troppo macchinoso, francamente. Che quei due abbiano da perdere o no, non vedo perché dovrebbero prestarsi ai comodi dei Corsati".

   "No, guardi, le mie ipotesi tengono nel debito conto l'umana psicologia. Non c'è dubbio che quei due abbiano qualcosa da guadagnare. Cosa non saprei: forse, i Corsati hanno promesso soldi alle loro famiglie".

   "Mah! e dove li prenderebbero i soldi i Corsati? Anche se, come suppongono, lei avesse nascosto molto denaro, facendola ammazzare come farebbero ad ottenerli?".

   "Direi da mio padre, che diventerebbe mio erede. O meglio dal suo commercialista, che è adesso il suo tutore. Se... i denari ci fossero".

   "Ma non ci sono".

   "No, non ci sono. Solo che i Corsati pensano di sì. Insomma, commissario, io le ho detto quanto so: il resto è solo un mia ipotesi. Quel che davvero importa è questo, che stanotte sono arrivato alla conclusione che solo lei può salvarmi, riaprendo le indagini e intanto facendomi dare la libertà provvisoria".

   "Ma non sarebbe stato meglio", aveva commentato Vittorio a questo punto, "di mandarmi a chiamare prima, quando aveva capito che il suo avvocato non aveva ottenuto niente?".

   "… e lei sarebbe venuta, se non si fosse commossa? Se non corressi ora il rischio d'essere ucciso? Solo un uomo ridotto alla disperazione fa una simile denuncia in carcere, giocandosi la vita. La violenza è stata provvidenziale; o... almeno lo spero". Su queste ultime parole, aveva guardato Vittorio con occhi di cane implorante.

   "Mm... insomma... dovrei riaprire le indagini per il suo proscioglimento: è così?".

   "Sì; e sùbito informarne il giudice istruttore, perché mi conceda la libertà provvisoria".

   "Non lo so. Nel complesso mi sembra debole quanto m'ha detto. Potrebbe benissimo aver inventato tutto, lo sa? ed essersi picchiata e sderenata da sola con lo spazzetto, per commuovermi; e poi, delle mezze calzette come quei Corsati avrebbero complici qui dentro?! Addirittura guardie che trasferiscono apposta nella sua cella, per farla brutalizzare, degli ergastolani? Idioti sì, ma non necessariamente complici".

   "Le giuro..."

   "Uh, mi giura! Figurarsi un po’ ".

   "Commissario", ero intervenuto, " ‘ste guardie complici non potrebbero essere semplicemente, che so, amici del Corsati o dei figli? Guardie e ladri, per così dire, arrivano tante volte dagli stessi quartieri".

   "Tu statte bbuono!" m'aveva intimato lui, senza neppur voltare la testa verso di me; poi, ancora al Verdi: "Da una parte mi chiedo perché lei m'avrebbe incomodato se non fosse stata la verità: sapeva che avrei indagato; anzi, è proprio lei che me lo chiede. D'altra parte però, qualcosa non mi convince. Tra l'altro, se le cose stanno davvero come dice... beh, lei nel difendere i suoi ha avuto finora una forza di volontà addirittura eroica; e ciò mi pare in contraddizione con la sua dichiarata impressionabilità".

   Il detenuto aveva chiuso gli occhi e s'era nascosto il viso tra le mani, tacendo per alcuni secondi; poi, riscoprendosi la faccia aveva emesso: "Scusi, non s'offenda, ma... lei non ha studi di psicologia, commissario; e la pregherei ancora d'una cosa, d'intervistare Pina Fortin, la nostra ex impiegata: precisamente si chiama Agrippina, Pina è un diminutivo: lei lo sa bene che io sono un galantuomo e che Giuseppina è una schifosa, e ve lo dirà di sicuro!".

   Vittorio non aveva risposto e lì il colloquio s'era chiuso.

   Non appena fuori, il commissario m'aveva detto: "Il presunto piano dei Corsati sembrerebbe davvero un po' troppo macchinoso".

   "Però, col pretesto della violenza carnale non hanno rischiato molto: legale risarcimento di danni. La parola d'una povera vittima adolescente contro quella del Verdi e quest'ultimo con un'accusa infamante. Oltretutto, un tipo odiato dal personale, a parte forse quella Fortin, e persino dal padre. Ricordiamoci poi che c'è il riscontro medico della violenza".

   Vittorio doveva essere più propenso a credere al Verdi che a non credergli: "Inoltre, le telefonate non sono dimostrabili, e neppure gli scritti con ritagli di giornale, anche se scoperti prima d'essere distrutti, sarebbero stati prove contro i Corsati: lo stesso Verdi avrebbe potuto comporli per depistare; in carcere i giornali arrivano. Fino a un certo momento non c'era pieno rischio per i ricattatori. È il dopo che non mi convince. I Corsati si sono preoccupati perché era morta la madre del Verdi e il padre era finito in manicomio, e quindi il figlio non era più ricattabile?! C'è il riscontro ospedaliero, l'accusa è infame e Carlo Verdi è considerato un violento dai suoi stessi dipendenti a parte, forse forse, quella Fortin".

   "A patto però che i Corsati abbiano nervi saldi e buona testa".

   "Anche questo è vero. Comunque, non so, sento che qualcosa non quadra; e tu, Ran, scoprirai che cosa".

   "Ah!": il vento era montato di nuovo e l'emicrania insieme.

(continua)

 

(*) Prime macchine meccaniche, antecedenti gli elettronici computer, che dalla fine degli anni ‘50 sveltirono la contabilità, prima tenuta a mano, al più col sistema detto a ricalco basato sulla carta carbone.

Ogni volta che nell'opera troverete una cifra in denaro, per averne all'incirca il valore anno 2000  in lire moltiplicate per 15.

Questo racconto lungo è incluso nel volume "Il mostro a tre braccia e I satanassi di Torino"

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