Franco Alvisi, Primavera bizantina (cronache liriche dallo sfacelo), poesie, Giulio Perrone Editore, ISBN 88-6004-003-5, pp. 74, euro 8
Recensione di Guido Pagliarino
Gia leggendo la prima sezione, “Preistoria”, l’intenzione del poeta di voler creare un corto circuito mediatico riportando la poesia a raccogliere un grande interesse di pubblico m’è parsa non azzardata. Questa parte raccoglie liriche scritte fra i quattordici e i sedici anni – il poeta è nato nel 1977 – dunque ai tempi delle superiori e sicuramente sotto la suggestione dei poeti classici, tutti, come su di essi lo stesso Alvisi, conoscitori della metrica a differenza di tanti autori contemporanei di prosa verticale che, purtroppo, la ignorano come se non contasse. È pur vero che si trovano ancora alcune verdi banalità, come per l’epigramma sentimentale “Il circo”, tuttavia i versi sono musicali e a volte essi raggiungono la poesia, come per l’intera lirica “La foresta”, non solo per la metrica ma in quanto riescono a coinvolgere i sentimenti di quel normale lettore cui l’autore intende anzitutto rivolgersi e col quale il sottoscritto s’identifica. Qualche taglio qua e là avrebbe a mio avviso migliorato certe già buone composizioni, ad esempio in “L’infinito” l’eliminazione dell’ottavo verso, “ho sentito”.
Nella seconda parte, “Visioni”, fa il suo ingresso, contro il luogo comune che il verso libero dia più corde alla poesia, la forma cosiddetta chiusa, in certe poesie con tanto di rima come nelle tre quartine di “Ebbrezza”, di cui riporto la prima, “Morbide deformazioni del reale / mi sovrastano e avvolgono tutto / come un greco vascello serale / sommerso e rapito all’antico flutto / […]”, giungendo addirittura, in chiusura di sezione, all’ormai quasi disusato sonetto; e il sottoscritto lettore, che da decenni prédica contro l’ostracismo alla forma classica, ha un bel respiro di soddisfazione. Ancora evidente è la suggestione dei classici, come quella del Foscolo in “Addio a Calypso”, “Né più mai gusterò fra le labbra”, che mi fa pensare al primo endecasillabo del sonetto “A Zacinto” – “Né più mai toccherò le sacre sponde” – tra l’altro col suo riferimento all’Odissea – “l'inclito verso di colui che l'acque / cantò fatali, ed il diverso esilio / per cui bello di fama e di sventura / baciò la sua preziosa Itaca Ulisse” – proprio come in questa composizione alvisiana: “di libiche foglie di loto” – “di sirene lasse agli scogli”. Questo non significa che non ci sia originalità, in tutta la sezione trovo immagini e accostamenti secondo me – chi dice d’aver letto, e di ricordare, tutto è un bugiardo – inusitati, come “Una macedonia di stelle” e “Ci fotocopiano il sole”.
In “Canti bizantini I”, ecco di nuovo il sonetto, sia pur in forma un poco emancipata rispetto ai classici, trascurando la corrispondenza di rime tra prima e seconda quartina e qua e là ricorrendo, al loro posto, ad assonanze, come d’altronde già nel sonetto che chiude la sezione precedente. Fa il suo ingresso, con buon ritmo battente, l’ipermetro, come “disseta la stupidità della mia trasparenza”, accanto a versi ipometrici, come nella pessimistica “La terra”, forse un’eco leopardiana – “[…] e fango è il mondo” –: “Palla grigia / niente vali niente voli / strisci strisci solamente […]”: bello, anche se non originalissimo, è quell’accostamento tra le parole assonanti vali – voli, che mi richiama certi ampi voli di rondini a caccia d’insetti coi loro improvvisi cambiamenti di rotta.
La quarta parte, “Canti bizantini II”, presenta versi brevi o brevissimi, a volte d’una sola parola, accanto ad altri ipermetrici: “stordito / voglio annegare negli odori che dissanguano”. La poesia s’è fatta più caratteristica, pur tra qualche banalità, come “Capelli d’argento”, e qualche espressione – da me – non facilmente comprensibile, come“una cicala scoppiata / sfracella / nottetempo trovata azzurra” nella lirica “Tramonto” – scritta in memoria d’una persona morta violentemente? – ciò ch’è forse in contrasto, di fatto, con l’intenzione alvisiana d’allargare la poesia a un più vasto pubblico. Aumentano in questa parte le immagini originali, in sé o grazie ad accostamenti, come nell’erotica “4 Marzo 1999”, “Mostrami l’entroterra / […] / guarda me solo con le gemelle / accese tue lune indiane” – intimo carnale, occhi a mandorla come quelli di certe figure indiane –, dove s’accompagnano trasparenza di significati e metafore personali.
Per quanto riguarda l’ultima sezione, “Esplosione” scritta fra il 2000 e il 2004, ho l’impressione, naturalmente posso sbagliare, che per qualche poesia – “Sevilla, 20 de Octubre de 2000”, “Sevilla, Noviembre 2000”, “14 de Febrero de 2001” – l’autore si sia abbandonato in un primo tempo a un’ossessiva scrittura automatica e poi, una volta decantato il primo getto, serenamente abbia aggiustato, riuscendo con buona arte a mantenerne l’originale carica espressionista e guadagnando in ritmo, pur senza raggiungere, mi pare, il valore d’altre sue liriche meno impetuose; possono aver giocato nel primo momento, dentro l’orecchio mentale, impulsive rime e assonanze poi mantenute, una volta riorganizzati i versi, nella stesura finale; si vedano ad esempio questi: “Di facciata / un’eleganza stanca / fiori alla plancia parlano di realtà / la verità il bello il buono / non stanno qua / povera un’aquila in volo / s’anima di fede platonica / […]”. Della sezione ho però preferito cose più semplici e tradizionali, che presentano rime e assonanze al mezzo, di scuola leopardiana, e godono, mi sembra, di qualche suggestione dannunziana, come “Amami / amami perché sono la vita / sono il trapezista sono il leone / sono la stazione da cui partono / i treni / sono ieri oggi domani / sono le mani / che applaudono / Sono il lago pieno di pesci / sono i rovesci della fortuna / sono la duna / sono l’albero in mezzo al deserto / sono il coperto del temporale / sono la nave / Io sono il mare / e tu sei mia”; potrei però suggerire d’eliminare l’ultimo, banale verso?
In tutte le composizioni della silloge – non nei titoli – ricorrendo allo spazio tra libere strofe per indicare una pausa, la punteggiatura è del tutto trascurata, come usa ormai largamente e, a mio parere, di norma senza danno ma senza vera utilità se non in casi particolari, come quando si vogliano significare inquietudine e incertezza, ciò che tuttavia riguarda solo una parte delle composizioni di Franco Alvisi.
Guido Pagliarino