Opere

 

Paolo Pagliughi, CARLO BORROMEO, I destini di una famiglia nelle lettere del grande santo lombardo, Mondadori, 2006, pp. 337, € 18.00

Recensione di Guido Pagliarino

 

Si tratta d’un saggio attento, basato sopra una bibliografia ampia. Il lettore sente fin dal primo capitolo che l’autore ha cercato con acribia, usando una lente ideale per cogliere, il più possibile, ogni particolare riguardante l’uomo Carlo Borromeo e la sua famiglia. È un’opera che può interessare tanto il comune lettore quanto gli specialisti.

Il lavoro s’apre con la presentazione, dettagliata come tutto il resto, della potente famiglia del santo, arricchita da una tavola con l’albero genealogico della dinastia dei duchi Borromeo, occupante cinque pagine e comprendente i più lontani cugini nonché i membri della famiglia del parente Papa Pio IV. Nel secondo capitolo troviamo Carlo adolescente, circondato da molti amici e senza frequentazioni femminili, ancor lontano dalla santità: un po’ vanitoso, grandemente desideroso d’emergere e, come nell’uso per i nobili non primogeniti, non aventi diritto alla successione della signoria, avviato – o militare o chierico! – alla carriera ecclesiastica. In lui tredicenne è già evidente l’uomo “onesto, coerente” nonché “ricco della giusta superbia di chi non si abbassa a sotterfugi o intrallazzi”; è sportivo, musico, poeta, e… buongustaio; certo, come l’autore intitola uno dei paragrafi, “non si nasce santi”; ma, anche se la santità è una conquista della buona volontà, la stoffa, si può aggiungere, dev’esserci; e c’è: un carattere d’acciaio. Alla morte del tremendo Papa Carafa, ch’era salito al soglio come Paolo III, è levato al trono pontificio lo zio di Carlo, il cardinale Gian Angelo Medici, che assume il nome di Pio IV. Di qui alla nomina a cardinale del nipote Borromeo, non ancora prete, l’iter è brevissimo. Inizia per il giovane una vita fastosa e divertente. Carlo fa cercare dall’esperto d’araldica Tullio Albonese “le radici della propria stirpe” in quanto, “salito d’un balzo tra le sfere delle più grandi famiglie europee”, scrive il Pagliughi, “[…] doveva porsi con tutti i suoi cari alla loro altezza”. Le nozze delle sorelle sono programmate dai capifamiglia con accortezza, scegliendo tra gl’illustri, e Carlo s’adopera da parte sua per il miglior risultato. Mentre gode la sua condizione di principe della Chiesa, di colpo la vita del futuro santo è funestata dal trapasso, a causa di gravi sregolatezze, del fratello Federico, capitano generale delle truppe degli Stati della Chiesa. C’è chi propone al suo posto Carlo stesso, ch’essendo ancor solo diacono potrebbe accettare rinunciando all’ordinazione a presbitero e, col titolo di conte, ricevere un feudo e accasarsi. Ma Carlo rifiuta, considerando tal posizione di molto inferiore a quella di principe della Chiesa e forse, in quel tempo, avendo l’ambizione di salir egli stesso, prima o poi, al soglio pontificio. Inoltre egli è fortemente ostile al matrimonio; anzi, pare proprio che le donne non l’interessino, le disprezza e scrive fra l’altro: “Dove sta la fermezza delle donne? Dove la costanza… la perseveranza… la fortezza d’animo? […] Le vedo […] buttare a mare l’onore dell’anima e del corpo”. D’altronde, son tempi di forte misoginia generale, anche se bisogna rilevare che non è così che insegna il Vangelo. Fin a questo punto, la santità non è ancora presente nel Borromeo; l’onestà intellettuale sì, e non è poca cosa; e dopotutto, almeno d’una donna egli si fida spassionatamente, già colmo com’è di fede cristiana: della Madonna. Inizia a questo punto, improvvisamente, a incamminarsi deciso “sulla via della santità”; scrive l’autore che “Carlo fin da fanciullo mirava in alto e, giunto al culmine della carriera terrena, andò oltre e puntò ai vertici della santità”. Ordinato prete, ancor giovanissimo diviene arcivescovo della vastissima diocesi di Milano, dove contrariamente all’uso del tempo egli, invece di rimanere a Roma presso la corte pontificia, risiede, ottemperando così ai recenti dettami del concilio di Trento. Si sottopone segretamente a dolorose penitenze con cilici e frustini e pure staffili dotati d’atroci ganci, per affinare il proprio animo, ciò che oggi sarebbe inconcepibile, ma che ai suoi tempi non è inusuale presso chierici e monache convinti che, solo in tal modo, si possa tener a bada il peccato. Tra cilici e altri strumenti d’auto tortura approfondisce di molto i suoi studi teologici, a differenza di tanti altri vescovi assai più esperti in campi secolari che nelle cose di Dio. Diversamente poi da molti di loro, non è affatto nepotista, e se certo egli lecitamente desidera e favorisce, come s’è detto, buoni matrimoni per i suoi, e anzitutto per le sorelle, non concede però ai parenti prebende, raccomandazioni e altri favori, così deludendone diversi in più occasioni. La svolta spirituale è stata tanto improvvisa e decisa che non è possibile non pensare a un intervento della Grazia. Una volta morto lo zio Papa, Carlo non ne soffre in prestigio, avendo ormai acquistato un grande carisma personale. In conclave dopo aver appoggiato un cardinale ritenuto dai più troppo progressista, il Moroni, s’unisce alla maggioranza nell’elezione del conservatore cardinal Ghisleri, Papa Pio V, riconosciuto santo dopo la morte, colui che, detta per inciso, scomunicherà, commettendo un grave errore politico, Elisabetta I d’Inghilterra, un disastro per i cattolici inglesi che ne saranno vieppiù perseguitati, e, animalista ante litteram, tuonerà contro il sangue di tori sparso in Ispagna nelle corride. Carlo, tornato a Milano dopo il concilio, da una parte riforma la chiesa meneghina e dall’altra, contro l’eresia protestante, restaura imponendo ferrea disciplina con l’ausilio dell’Inquisizione, con piena approvazione pontificia, essendo stato Pio V, prima dell’elezione al soglio, Grande inquisitore romano. Il cardinal Borromeo autorizza pienamente, da parte sua, la violenza esercitata dai suoi sottoposti e dal potere civile contro gli eretici e le streghe, che finiscono in prigione o addirittura sul rogo; inoltre Carlo teme gli ebrei: atteggiamenti questi che l’autore riconduce allo spirito del tempo, anche se resta il fatto che tali cose con l’Evangelo non hanno nulla a che fare; ciò non toglie, per contro, che la santità si raggiunge non per le azioni ma per le scelte fatte in buona fede, seguendo cioè la propria coscienza in base alla cultura che si possiede; l’autore precisa che “Carlo non era in grado di immaginare la tolleranza come il suo quasi contemporaneo san Tommaso Moro (1480 – 1535) nell’Utopia” che scriveva: “‘A Dio piace il culto vario e diverso perciò si consenta a ognuno di credere ciò che gli piace’ ”; secondo il Borromeo, è “Dio a volere le repressioni e a disporre le esecuzioni”. Le sorelle, da parte loro, fanno a gara nell’aizzare il futuro santo contro gli eretici. Oltre a dover affrontare maliarde e devianti, Carlo deve lottare contro il prepotente governo ispanico di Milano e si trova avversari pure la nobiltà e una parte del clero. Solo il popolo lo sostiene, almeno per il momento, sentendolo come un “provvido protettore nel bisogno e un oppositore al pesante regime spagnolo”, soprattutto dopo che il relativamente conciliante governatore duca di Albuquerque è assassinato ed è stato sostituito da “don Luís de Zuniga y Requesens, un uomo permaloso e geloso del suo potere, scelto di proposito per tenere testa a Carlo”. Continui sono i dissidi, le provocazioni e le ripicche. Tra l’altro, contro la compiacenza del governo laico che desidera rabbonire la plebe con divertimenti popolari, Carlo depreca le feste di carnevale che, per lui, allontanano dalla fede; è così che comincia a scalfirsi la fiducia che il popolo ha in lui. Sul fronte religioso, è scontro con molti ordini desiderosi d’indipendenza, tra cui il forte gruppo dei canonici della ricca chiesa di Santa Maria della Scala; son diverbi vinti infine da Carlo, ma solo dopo molto tempo e soverchi sforzi. Un attentato, addirittura, è attuato contro di lui, a mezzo d’un provetto archibugiere: l’arcivescovo resta ferito ma si salva, il colpevole è arrestato e condannato; e Carlo approfitta della situazione per lasciar girare, e forse provocare egli stesso, la voce d’essere rimasto del tutto illeso, ovviamente grazie a un miracolo; vuole così aumentare il prestigio della Chiesa; in realtà è rimasto gravemente ferito e per molto tempo sta chiuso nel suo palazzo, a letto e soggetto a cure: alla sua morte si troverà sul cadavere la cicatrice del colpo d’archibugio ricevuto, nella schiena; resta il fatto che Carlo si salva da uno sparo che poteva essere mortale e dunque non è sbagliato parlare di miracolo. Tra nozze e vicissitudini di parenti diversi (occupano una notevole parte del libro, in vari suoi punti) che procurano al futuro santo patemi e problemi, questi assiste con gioia alla vittoria a Lepanto della flotta della Lega cristiana, voluta e organizzata da Papa Pio V, sopra quella mussulmana turca, assai più potente: una guerra cui partecipano, con fortuna, parenti di Carlo in posizioni preminenti. Pio V muore pochi mesi dopo la vittoria, causa calcoli renali che non aveva voluto fossero operati, pare per pudore. Durante il breve soggiorno a Roma per il nuovo concilio, Carlo trova il tempo di dettare norme per la consumazione del matrimonio durante la prima notte di nozze la quale, secondo lui, dev’essere preceduta da preghiere; sono regole che s’aggiungono a quelle generali della Chiesa di quel tempo che stabiliscono, tra l’altro, non solo il divieto delle nozze durante l’Avvento, ma che tutti gli sposi debbano in tali settimane rimanere casti; capita però che proprio una delle famigliari del Borromeo, contravvenendo all’ordine, durante l’Avvento resti incinta, con grave imbarazzo. Ai problemi che vengono al Borromeo dalla famiglia, potrebbe aggiungersene un altro, il fatto che non pochi congiunti del futuro santo son cagionevoli di salute, se non fosse che Carlo ha “una sua singolare teoria, cioè che la cura del corpo può recar danno allo spirito, mentre la malattia lo fortifica”, e ritiene trattarsi di benedizioni di Dio al fine di fortificare lo spirito dell’ammalato: un sentire peraltro diffuso nel suo tempo, e non ancora del tutto estinto oggi, nemmeno che Dio fosse un aguzzino e non l’Amore in persona. Per inciso: è un’idea che nel corso dei secoli porta pure tantissimi santi, come Carlo stesso, a strenuamente digiunare; eppure, l’obbligo del digiuno frequente non figura affatto nel Vangelo originale, accanto a quello realmente gesuanico di pregare, e lo dimostrano le copie più antiche del Vangelo stesso: si tratta d’un’interpolazione, in una copia del IV-V secolo, da parte d’un pio copista che, evidentemente, aveva tal personale convinzione e voleva imporre la pratica del digiuno a tutti; tal aggiunta apocrifa era stata poi riportata nelle copie successive; è stata finalmente tolta, ma solo da alcuni anni, dopo il concilio Vaticano II; comunque, quante strenue astensioni dal cibo debilitanti, in quindici secoli, per l’interpolazione d’un copista più pio che saggio! Anche ai tempi del Borromeo ci sono però chierici che, usando maggiormente di lui il comune buon senso, evitano eccessi penitenziali, come il cardinale Tolomeo Gallo vescovo di Como che, in amicizia, lo esorta a evitarsi strapazzi fisici, sia perché il corpo è creato da Dio e merita piuttosto “carezze”, sia perché un fisico sano aiuta a operare il bene. Anche tali esortazioni son tuttavia inutili e l’arcivescovo di Milano continua a flagellarsi e a digiunare. Tra matrimoni, nascite, malattie e morti di consanguinei, e conflitti con mezza Milano, Carlo deve scontrarsi a un certo punto anche con la peste che ha invaso la città. Dispone al meglio possibile per quell’epoca, dando molto denaro personale per sfamare gli sbandati e disponendo la quarantena, nonché ordinando ai cittadini la massima pulizia del corpo e  delle vesti e controllando direttamente i suoi sottoposti; così muoiono solo due delle molte centinaia di suoi collaboratori, mentre la media cittadina è altissima. Finita la pestilenza, l’arcivescovo ordina processioni e penitenze ed egli stesso va a piedi alla nuova capitale sabauda per onorare la Sindone. Per inciso: questa era stata appositamente portata per lui a Torino dall’ex capitale Chambery, con la scusa d’abbreviare così il percorso del debilitato arcivescovo: c’era stato però un sottile calcolo da parte del duca di Savoia; egli ne avrebbe infatti approfittato per non restituire più il Sacro lino alla Cappella della Sindone di Chambery (cfr., di G. Pagliarino, La misteriosa Sindone di Torino, Lulu Press, © www.pagliarino.com, 2006). Tornato a Milano, Carlo vieta, per maggior penitenza, i balli pubblici e gli spettacoli teatrali di fine settimana, amatissimi dal popolo, di cui s’attira definitivamente la malevolenza; erano talmente poche in quel tempo le cose belle e divertenti di cui poteva godere chi non era ricco e nobile, che si può ben comprendere l’irritazione del popolino di Milano: non tutti sono santi e, d’altra parte, la santità non si raggiunge di certo in seguito a severe bolle arcivescovili. C’è tra gli ecclesiastici milanesi chi sta con la cittadinanza contro l’arcivescovo; tra gli altri, tuona dal pulpito il famoso predicatore gesuita Giulio Mazzarino che, in seguito alle molte lamentele di Carlo presso il Papa, sarà punito da Roma, sia pur dopo varie titubanze dato che “le tesi del Mazzarino non intaccavano diritti divini”. Chi non teme affatto il cardinale è l’ambiente spagnolo che guida Milano; così il nuovo governatore Ayamonte, per ingraziarsi il popolo e far dispetto all’arcivescovo, organizza spettacoli e intrattenimenti proprio sulla piazza del duomo durante le ore delle funzioni religiose, con gran dolore morale di Carlo; Ayamonte però ben presto muore; è stato assistito religiosamente proprio dall’arcivescovo, accorso prontamente al suo capezzale. Il successore don Sancio de Guevara “sarebbe stato assai benevolo col cardinale”: forse pensando che, dopotutto, poteva esser meglio non sfidare l’ira divina? Carlo, da parte sua, temeva Dio in modo ossessivo, era incline agli scrupoli e aveva una paura tremenda d’essere in peccato, tormentato da ‘quotidiani rimorsi’; per questo rovinava le proprie ore, allontanando da sé quella letizia ch’era stata invece d’un altro grande santo, Francesco d’Assisi. Tutto ciò portava il Borromeo a momenti di grave depressione, forse dovuta pure, si potrebbe sospettare oggigiorno, a deficienza d’endorfine. Una sua sorella, l’amatissima Anna, non era da meno di lui; scrive l’autore ch’ella, nel proprio palazzo, “sostava nella cappella adorando il Santissimo Sacramento per notti intere; era una contemplativa, andava in estasi, rapita e immobile per ore”. Ella pure infliggeva gravi punizioni al proprio corpo, fin quando, privazione dopo privazione, ancor giovane era morta, in “serenità: come Carlo, amava la morte, che considerava porta del paradiso”. Due anni dopo era stata finalmente la volta del fratello, che pur ammalato grave non s’era risparmiato gravissime fatiche fin all’ultimo momento. Sul suo cadavere erano stati trovati i segni di tremende torture auto inflitte, oltre alla cicatrice dell’archibugiata.

Paolo Pagliughi ci presenta, in sostanza, un fervido credente e praticante d’altri tempi, con l’intento però, afferma nella prefazione, di descrivere “l’uomo comune che sonnecchia sotto la ruvida tunica dell’asceta”, il quale uomo “non intacca l’immagine del santo”: un santo in verità un po’ inquietante per noi cattolici moderni che viviamo dopo il liberale Vaticano II, concilio che ha messo in grand’evidenza, tra l’altro, il dettato biblico Misericordia Io voglio e non sacrificio: le vie della santificazione oggi sono altre, passano sì sempre attraverso il sacrificio, ma solo nell’azione svolta per amore a favore degli altri e non per penitenze e autopunizioni estenuanti, quando non mortali: come insegna il Vangelo, nemmeno Gesú aveva cercato il dolore, l’aveva subito, e offerto con amore al Padre, solo quando non era stato più possibile scansarlo; ma la santità, come si vede anche in questo libro, può basarsi su di un equivoco, infatti, come avevo prima ricordato, nel Cristianesimo conta essenzialmente la scelta personale in buona fede sulla base dei dati che si posseggono.

Il saggio, dopo la bibliografia, è arricchito da un lungo elenco dei personaggi che furono accanto a San Carlo Borromeo, ciascuno presentato con una breve biografia.

Guido Pagliarino