Opere

 

ALCUNE TRADUZIONI E IMITAZIONI DI OPERE LETTERARIE DI DUE AUTORI NON ITALIANI

 di Guido Pagliarino

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1)

 

MARIA, LO SAPEVI?

(© CTherese - traduzione di Guido Pagliarino -)

 

Quando tenevi la sua testolina sulla spalla,

lo sapevi che sarebbe stata un giorno coronata di spine?

 

Nel fare il bagnetto al piccolino e asciugando la sua ténera pelle

sapevi che un giorno la sua carne sarebbe stata flagellata con ferocia?

 

Nel tenere le piccole manine nelle tue mentre faceva i primi passi,

lo sapevi che un giorno quelle mani sarebbero state inchiodate a una croce?  

 

Mentre solleticavi i suoi piedini a farlo ridere contento 

sapevi che un dì quei piedi, per tre volte, avrebbero ceduto sotto il peso della Croce?

 

Quando tu gl’insegnavi a pregare il Padre Suo che è nei cieli,

lo sapevi che avrebbe poi gridato in agonia, verso di Lui?

 

Mentre tenevi il Sacro Coricino accanto al tuo e lo sentivi palpitare,

lo sapevi che una spada avrebbe trafitto il Suo cuore?

 

Quando dicesti “sì” a nostro Signore, lo sapevi?

Lo sapevi che una spada avrebbe perforato anche il cuore tuo?!

 

 

LO STRUMENTO

(© CTherese - traduzione di Guido Pagliarino -)

        All’inizio, quando l’artefice fece lo strumento, esso era bello e la sua musica era così dolce e limpida che tutti desideravano averlo.

L’artigiano diede lo strumento a una giovane coppia che sapeva l’avrebbe trattato con amore. La coppia non escluse l’artigiano. Eseguirono per lui le più tenere canzoni; e lo strumento rispondeva con la sua dolce voce al tocco amorevole della coppia. La giovane coppia ebbe bambini e anch’essi sonarono lo strumento. A volte i bimbi sonavano delicatamente, ma altre, come tutti i bambini, sonavano arie aspre, esprimendo suoni scordati, logorando le delicate corde.

 

        Mentre gli anni passavano, i bambini della coppia crebbero e se ne andarono da casa. La coppia non aveva canti nuovi da sonare allo strumento e così lo diede a un giovane, che promise d'averne buona cura. Lo strumento non era felice in questa nuova ignota sede. Desiderava ardentemente le belle arie della propria gioventù, gli amorevoli tocchi dell’antica coppia. Benché l’uomo sapesse comporre tre belle sonate con lo strumento, le sue mani erano sgarbate e le canzoni che eseguiva erano dure e crudeli per la maggior parte del tempo. Lo strumento urlava al mondo la propria angoscia, accorgendosi che il suo intimo, a poco a poco, si stava guastando. Anche quando le tre belle composizioni furono eseguite, lo strumento non poté cantarle con la sua usuale dolcezza. Infine non fu più in grado d’esprimere le canzoni dell’uomo; e l’uomo se ne andò, abbandonando lo strumento. E lì questo sedette – sbattuto, ammaccato, intaccato, graffiato e dolorosamente senza melodia.

 

        Presto, un gruppo di nuovi musicisti trovò lo strumento e lo utilizzò sovente per eseguire le proprie canzoni. Alcuni dei sonatori erano delicati, ma in maggior parte erano tumultuosi, strimpellanti le note volgarmente e sgradevolmente, solo per passatempo e divertimento. Lo strumento, contento per il solo fatto d’aver qualcuno lì con lui, rispondeva meglio che potesse. Provò a insegnare agli esecutori le dolci canzoni del passato che conosceva, ma i sonatori non ne furono interessati.

Molti anni trascorsero e ormai lo strumento non poteva più cantare qualcosa, solo restituire le cattive canzoni che venivano martellate su di lui. Finalmente, quel gruppo di sonatori abbandonò lo strumento, lasciandolo con le proprie cattive canzoni, l’esterno ammaccato e le parti interne fiaccate. Lo strumento non aveva idea di come fosse finito in tale stato. Sua sola consolazione era il ricordo dei bei canti ch’era stato solito eseguire un tempo, specialmente le tre belle composizioni create dall’uomo; e stando seduto in solitudine, meditava su quelle opere.

 

        Un giorno, l’artefice trovò il suo strumento, e provando afflizione per le condizioni del suo bel capolavoro di una volta, invitò un gentiluomo a prendersene cura. L’uomo dall’animo gentile portò lo strumento a casa con lui  e accarezzò con amore la sua contusa struttura esterna. Lo lucidò e lo rese ancora piacevole al tatto, ma quando provò a sonare i suoi canti d’amore, lo strumento non fu all’altezza d’eseguire un qualcosa di dolce. L’uomo provò frustrazione per non essere in grado d’aggiustare le parti interne e lo strumento sentì gran compassione per lui, desiderò d’essere capace di cantare soavemente per quest’uomo gentile.

 

        Nel buio di una notte solitaria, mentre l’uomo dormiva, lo strumento si rese conto che c’era un solo modo per cantare ancora dolcemente. Sperando di non destare l’uomo addormentato, lo strumento espresse in un urlo il suo rotto canto verso l’artefice, il più forte possibile. La sua canzone risonò nella notte e a quella dolente melodia l’artigiano si svegliò. Immediatamente venne allo strumento e iniziò il suo lavoro. Quando l’alba fu prossima, aveva finito, benché lo strumento fosse ancora ammaccato, graffiato e tagliuzzato all’esterno, i suoi meccanismi interni erano stati sostituiti con parti nuove.

Il gentile uomo si svegliò e, trovando l’artigiano con lo strumento, si meravigliò, dato che quest’artista stava sonandolo e melodie gloriose ne uscivano facendo cerchia attorno alla sua forma pesta.

L’uomo gentile, con le lacrime agli occhi, chiese all’artigiano cosa potesse fare per ringraziarlo.

“Tenga da conto la strumento come ha sempre fatto”, disse l’artefice, “lo accarezzi e lo lustri con le sue mani affettuose.

“Ma, signore”, replicò l’uomo gentile, “io non sono in grado di far sonare questo strumento tanto bene quanto fa lei: quello è, appieno, il suo fine!”

“Sì”, ribatté l’artigiano. “Quello è, perché io resterò qui con lei. Io eseguirò le melodie e lo strumento canterà più dolcemente di quant’abbia mai fatto prima.”

 

        E da quel giorno in poi, lo strumento suona costantemente, restituendo i bei canti dell’artista. E l’uomo gentile ascolta e sorride.

 

        Per chi non l’avesse ancora capita, l’artigiano è Dio e lo strumento sono io.

 

 

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2)

Alcune traduzioni / imitazioni di poeti francesi classici (da Guido Pagliarino, "La speranza possibile", Rebellato Editore, 1981)

© sulle traduzioni Guido Pagliarino

 

CORNI DI CACCIA

(da Guillaume Apollinaire)

 

 

 

La nostra storia nobile e tremenda (*)

è come la celata (**) d'un tiranno.

Nessun dramma del caso o di magia

nessun dettaglio indifferente rende

al nostro amore la maliconia. (***)

 

E Tommaso di Quincey che beveva

il veleno dell'oppio dolce e casto

andava in sogno all'infelice Anna.

Passiam passiamo poiché tutto passa.

E io mi volterò sovente indietro.

 

Le rimembranze son corni di caccia

e ne muore la voce in mezzo al vento.

 

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(*)Nell'originale  tragique, tragica

(**) N.o.  masque, maschera

(***)N.o.  ne rend notre amour pathétique,  non rende - non restituisce - il nostro amore patetico

 

 

VENDEMMIE

(da Paul Verlaine)

 

 

E quelle cose che cantano in mente

allora che il ricordo resta assente,

ascoltate, è il nostro sangue in canti...

Oh la discreta musica e distante!

 

Ascoltate! è il sangue nostro in pianto

allora che è fuggito il nostro cuore (*),

d'una voce inaudita fino allora

che sarà muta solo fra un momento.

 

Fratello in sangue della vigna rosea,

fratello in vino dalla vena nera,

oh, vino! oh, sangue! qui (**) è l'apoteosi!

 

Cantate e lacrimate! La memoria

cacciate e il cuore (*), e le povere vertebre

calamitateci fino alle tenebre.

__________

(*) Nell'originale âme

(**) N.o.  c'est, è - non: qui è -

 

 

I CORVI

(da Arthur Rimbaud)

 

 

Signore, quando il prato si fa freddo

e quando nei casali demoliti

i lunghi tocchi tàcciono dell'Angelus...

sulla terra (*) sfiorita 

fate tuffare dai cieli spaziosi

i cari corvi deliziosi.

 

Armata aliena dai gridi severi,

i venti freddi ti assalgono i nidi!

Tu lungo i corsi dei fiumi ingialliti,

sopra le strade di vecchi calvari,

sui fossati e le forre

sparpàgliati e rifòrmati!

 

A mille a mille sui campi di Francia

dove dormono i morti d'avantieri,

d'inverno, non è vero? torneàte

perché il passante mai non si dimentichi! (**)

Che tu sia dunque l'urlo (***) del dovere

o nostr'uccello della morte nero!

 

Ma, santi in cielo, al sommo della quercia,

le capinere maggioline restino (****)

per quelli incatenati in fondo al bosco

nell'erba che nessuno può fuggire,

una sconfitta che non ha avvenire.

 

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(*) Nell'originale nature, natura

(**) N.o.  pour que chaque passant repense! affinché ogni passante ripensi

(***) N.o. le crieur, lo strillone, il banditore

(****) N.o. laissez, lasciate (le capinere maggioline)

 

 

DOMENICHE

(da Jules Laforgue)

 

 

Oh, questo pianoforte, il caro piano

che non s'arresta, non s'arresta mai,

oh! questo piano che lamenta in alto

e che s'intesta sopra la mia testa!

 

Vi sono dentro le sinistre polke

e le romanze da portineria,

fini esercizi

                       e il Prego d'una vergine!

 

Fuggire? dove in questa primavera?

Nulla da fare fuori, la domenica...

E più nulla da fare a casa mia (*)...

Oh! nulla v'è da fare sulla terra!...

 

Ehilà, ragazza assisa avanti al piano!

Io lo so bene che non tieni un'anima!

Mai più cadere dentro la tua rete

di nostalgia che tendi con le scale...

 

Fiori fatali uniti dal Ricordo,

leggende folli ormai tutte sfiorite,

basta! mi basta! vi sento venire

e la mia vita è prossima a partire...

 

È vero, una domenica dal cielo

grigio, e non faccio più nulla di bene,

e l'infimo organetto barbaresco

(il poveretto!) m'afferra alle viscere!

 

E allora troppo folle io mi sento!

E se fossi sposato, ucciderei

la bocca all'amorosa e le direi

inginocchiato le parole ambigue (**):

 

"Il mio cuore mi è troppo troppo cèntrico!

e tu sei frale nella carne umana; (***)

e allora non pensare che sia male

se ti dò delle pene!"

 

__________

(*) Nell'originale dedans, dentro, al chiuso

(**) N.o. bien louches, molto losche, loschissime

(***) N.o.  e toi, tu n'est que chair humaine, e tu, tu non sei che carne umana

 

 

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