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(IN QUESTA PAGINA TROVANO OSPITALITA' NOTIZIE CULTURALI E OPERE BREVI DI ALTRI SCRITTORI)
DI CATTEDRE DI FANTANTASCIENZA
di Antonio Scacco
Il rapido progredire, oggi, della scienza e della tecnologia sottopone l’uomo, nel breve volgere della sua esistenza, a una serie di mutamenti così inattesi, profondi e molteplici che, in passato, si verificavano solo nell’arco di centinaia di anni. La visione del mondo era, per l’uomo del passato, del tutto rassicurante, tanto che l’umanista Carolus Bovilus poteva dire: "Hunc mundum haud aliud esse quam amplissimam hominis domum". L’avvento della scienza moderna sconvolse sin dalle fondamenta tale concezione prescientifica. E poiché quella che è andata in frantumi è la visione armonica del mondo e l’uomo contemporaneo - afferma il filosofo tedesco Max Scheler - "è diventato pienamente e completamente problematico a se stesso; [né] sa più ciò che egli è, ma allo stesso tempo sa pure di non sapere, si designa il disagio dell’epoca moderna come "crisi umanistica".
Tuttavia, se la scienza è all’origine della crisi umanistica contemporanea, non ha senso condannarla e rigettarla in nome di una improbabile ed idilliaca era pre-scientifica: nella storia i "ritorni" non sono possibili, meno che mai il ritorno ad un’età della pietra o ad un’età barbarica, che nessuno in pratica sarebbe disposto ad accettare. La soluzione della crisi è, invece, nello sforzo difficile ma non impossibile di integrare la scienza in un umanesimo rinnovato, alla cui realizzazione dà un notevole contributo la letteratura che alla scienza si ispira: la science fiction o fantascienza. Non è semplice esporre, in poche battute, il percorso critico, filosofico, epistemologico e pedagogico che ci ha portati ad intendere la fantascienza come ponte tra le due culture e come stimolo per i giovani ad accostarsi allo studio della scienza. Rimandiamo, perciò, quanti lo desiderano, ai nostri interventi più significativi.
Tuttavia, per poter assolvere il compito di educare le giovani generazioni all’uso corretto (umanistico) della scienza, la fantascienza ha bisogno di essere accolta nel mondo accademico italiano. Si rende dunque indispensabile la istituzione di cattedre universitarie, come normalmente avviene nel mondo anglosassone, dove recentemente, a Glamorgan (UK), è stato istituito un corso universitario con diploma di laurea in fantascienza. Ma è anche indispensabile l’appoggio di quanti credono nella bontà del nostro progetto, appoggio che può essere dato sia divulgando la nostra iniziativa, sia dando la propria adesione mediante il form di "Mooncity" di Annarita Petrino.
Il Comitato organizzatore, di cui fanno parte Ilaria Biondi (ricercatrice universitaria), Roberto Furlani (direttore della rivista fantascientifica online "Continuum"), Enrico Leonardi (docente di lettere, collaboratore di "Cultura Cattolica" e critico di fantascienza), Luciano Nardelli (scrittore di fantascienza), Michele Nigro (redattore di "Nugae" e scrittore di fantascienza), Guido Pagliarino (scrittore), Annarita Petrino (scrittrice di fantascienza) e Luigi Picchi (insegnante
liceale di Materie Letterarie e critico letterario), raccoglierà le adesioni pervenute, che si spera siano abbondanti, e le presenterà, a corredo del piano di studio per la laurea in fantascienza, agli organi competenti.
SULLA FIGURA DI GIOVANNA MULAS
Ricevo in data 30 maggio 2007 un'e-mail dalla professoressa Stefi Ariu che mi segnala il caso e la figura artistico-letteraria di Giovanna Mulas (v. il sito www.giovannamulas.it):
Invitando i miei lettori a diffondere quanto sopra, pubblico volentieri, di seguito, lo scritto della Mulas allegato all'e-mail:
Sa Mula
( La Mula )
Tratto da Delle trascorse Stagioni –inframmentos di me-, 2007 Ed. UNIService, Trento
Camminava a testa bassa per le vie di Nùgoro, ricordo, come che tutto il peso del mondo fosse buttato sulle spalle di femmina tozza e grezza, sarda, megera, regina. La vedevi camminare vestita e calzata sempre uguale; maglione rosso e blu e verde anche d’estate e la gonna troppo corta, storpia e offuscata come i capelli da parrucca, tagliata corta, attaccata alla testa ché nessuno l’avrebbe detto mai, guardandola così, che “faceva la vita”e la felicità di tutti i pastori del circondario; avrebbero detto che di una povera matta si trattava.
Sa macca ‘e sos pastores, la matta dei pastori. Gli stessi che, giocando a scopa o ruba mazzetto in su zillèri, nel buco in Piazza Vittorio Emanuele de Angiolu Pili, cussu maistru ‘e muru zoppo e senza una mano, regalata agli austriaci, le dicevano puttana; “cussa est mala”, naraiant. Per poi riempirle letto e ventre il sabato o la domenica sera, tardi, quando nessuno poteva vederli arrivare, o quando il marito di lei rimaneva buono a godersi la scena nella camera accanto. E i ragazzini, al rientro dalla scuola, circondavano urlando improperi l’unica finestra della casa de sa mula, la finestra che dava direttamente su strada e cortile dove si affacciavano per stendere la biancheria, tra i gerani, anche le buone signore, le mogli dei poliziotti, da quel palazzotto che rivedo grigio e nero, su di viale Repubblica, poi verniciato di verde pisello, di cinque piani. E rammento che nelle corde per stendere, tre corde che correvano parallele erano, ogni indumento steso aveva un suo ordine gerarchico: l’intimo della donna dietro, ché non potesse vedersi ad occhi curiosi ma solo a quelli del marito ufficiale. Nella seconda corda stavano gli indumenti proprio del marito o dei figli maggiori, maschi, nell’ultima, la corda che gettava sulla strada, s’affacciavano prepotenti i corredini dei neonati, rosa o azzurro non importa, anzi, se era azzurro meglio; la donna voleva dire ch’era stata una brava femmina, a mettere al mondo l’erede di famiglia. Pannolini Chicco che non ne contavi il numero, bavaglini e grembiuli.
Eccole, le buone signore nuoresi, le borghesi annoiate da caffè sedute al tavolino del Bar del Corso a mezza sera o da Martini bianco prima del pranzo, a far finta di leggere La Nuova Sardegna o L’Unione Sarda per darsi un tono e, in realtà, sbirciare, sputare veleno sui personaggi in fila sul selciato. Le signore dei completi su misura ordinati da DiCesare, la passeggiata lungo il Corso a braccetto del rispettabile marito e della confessione a padre Mereu e “padre mi assolva, la prego mi assolva ché ho molto peccato…ho parlato male di comare Gavina…ma l’ho vista tanto ingrassata ultimamente che l’ho pensata incinta così, senza essere maritata.
Poi ho visto che la moglie del dottor Manzi è sempre triste e sono andata a trovarla non per fare una azione di carità ma bensì per ascoltarne i pettegolezzi…e sa perché è sempre triste, padre? Non lo sa? Si, si, glielo dico, certo…siamo tra di noi…mi ha confessato di aver scoperto che il marito ha un’istanza fallimentare…i Manzi stanno perdendo tutto, sa padre? Che vergogna! Villa in città e casa al mare…mio marito ha sempre detto che il dottor Manzi è un inetto. Fosse accaduto a me sarei morta, oh si! Tutte le amiche che le voltano le spalle, a quella donna…si troverà sola, a Nuoro, creda a me.”.
Le buone signore della messa la domenica alle undici e l’ostia presa tra le labbra strette, ché non si vedesse la lingua sporgere troppo dalla bocca.
Le buone signore della domenica nuorese stendevano e mentre una molletta s’incastrava un velo pietoso s’alzava,di sguardo basso e morboso che volava con disprezzo e invidia alla finestra de sa mula, dove ogni ora, scandalo grande era, un maschio diverso vedevi aggirarsi accaldato e semi nudo; magari solo calze e berritta addosso teneva.
Mia madre mi aveva raccontato che alla mia nascita, nella stessa stanza del San Francesco, era ricoverata per aver appena partorito anche lei; sa mula. Mamma diceva che non era donna cattiva, ch’era fatta così, che la vita, a volte, porta a fare cose che non tutti possono comprendere ma che per quella persona, solo per lei e la sua coscienza, non potevano andare che così, oppure peggio di così.
M’affacciavo al balcone stretto, invaso di pensieri e speranze ed una rosa, alta e solitaria, che solo nel maggio magico di quell’anno era riuscita a sbocciare.
Vedevo i ragazzini vocianti attorno alla finestra che mi davano fastidio.
E lei, quando l’incontravo per strada, la salutavo “Buongiorno signora”, e non importava il resto.
Sa frugare gli occhi con occhi di gatta esperta, sa mula.
Sorrideva disarmante, allora.
Più vera lei di certe vere signore nuoresi, cagne mangiate da frustrazioni, alcool e sessi zittiti, calunnie casaechiesa.
Corvi che non hanno mai imparato a volare.
Col suo maglione stanco e i tacchi alti sa mula, i capelli tenuti pure corti sulla testa, scuri, che non ho più visto.
UNA RECENSIONE DI GIOVANNI VENEZIA
Ricevo per e-mail da Giovanni Venezia, www.ilpungolo.com, in data 16 maggio 2003:
Pubblico volentieri:
di Giovanni Venezia
Nel leggere il libro di Liana De
Luca ho avuto la sensazione di avere compreso subito il senso profondo dei suoi
versi: la piacevole certezza che qualcosa, quali impressioni substanziali e
riflessioni ( non intese come speculazioni filosofiche) avessero comunanza con
il mio modo di dire le cose in versi e fors’anche in prosa.
Sono fermamente convinto che per poter sentire emozioni esprimere concetti
oggettivi sull’arte, la poesia,la pittura, la musica,la letteratura, etc., è
necessario che il soggetto abbia letto poesie, critica d’arte e romanzi e
storia. Ciò perché le sensazioni che esprimiamo in prima lettura, anche
visiva, si materializzano in giudizi spontanei,genuini. D’istinto, comuni a
tutta la gente. E quindi, leggendo o dicendo poesie, (nel concetto sopra
espresso), ti accorgi che è lì che riesci a trovare il vero mondo
dell’autore , del poeta. In esso trovi la espressione di comunicazione con
l’aggettivazione centrata , il tema che ti è anche caro
Trovi perfetta l’architettura dei versi, ove le parole, composte una accanto
all’altro,come in un progetto, fanno ritrovare te stesso e con gioia ti fa
gridare che hai colto i sentimenti veri che l’Autore vuole esprimere. E ciò
perché quanto altri scrivono appartiene anche al tuo mondo, in maniera diversa
,mai, però, opposta.
Non a caso Silvio Ramat scrive: La De Luca è sovranamente in pace con le
parole.
Questo il motivo che mi ha indotto a rileggere , con attenzione e profonda
riflessione “Il posto delle ciliege”. Vivo la piacevole sensazione di
sciogliere un voto formulato con me stesso.
Mi pare, intensamente significativo iniziare dalla fine.
“Ha tolto il disturbo
a tempo giusto
ma ha tolto anche l’affetto
sepolto nel posto delle ciliege”.
Da tempo, infatti, meditavo di sviluppare, con la mia tanto cara tacitiana
“concinitas” talune osservazioni e riflessioni che spesso mi è capitato di
fare con la “sorella Morte”. E finalmente con l’animus della De Luca, mi
è data questa occasione così da rendere questo mio atto d’amore verso colei
che trae dalla nostra Vita la “sua Vita”.
Inquadrata, così, sul piano della oggettività, non trovo nei versi della De
Luca dolore, nel comune senso che la gente attribuisce a questa “cessazione di
un modo di essere”, ma nemmeno rassegnazione o, - come scrive Gioanola -
serenità di un’ accettazione del destino creaturale.
L’Uomo, scrive con essenzialità l’Autrice, è un essere per la morte; dove
l’essere convive con la propria continuità naturale: la morte stessa. Dov’è
allora, il dolore, la rassegnazione ovvero l’accettazione intesa come
sentimento del destino creaturale? Non mi pare che “ la dipartita”, sia
espressione assiomatica, quanto, piuttosto, un momento, un luogo da cui si
torna…e ce lo dice con splendido lirismo l’Autrice :
”Chi torna dal coma
narra un paese meraviglioso
di ampi spazi e di luce splendente
in fondo a un tunnel dove l’aspettavano
parenti ed amici per aiutarlo
a trapassare nel nuovo mondo.”
Dov’è allora il mito della Morte che falcia la Vita come espiazione di colpe?
Piuttosto è nella vita la espiazione . Infatti,
“Guardare chi agonizza è un po’ morire
assieme a lui.”
Ma,
“ Il mito
della dovuta felicità
garantisce che ogni desiderio
ha diritto di essere adempiuto.”
In questo mondo della De Luca ritrovo , compiacendomi, motivi ed immagini che
fanno da filo conduttore in un mio modesto lavoro poetico edito nel 1975, “ Su
questa pietra d’antico tempo” quando scrivevo:
-Vita e Morte –
Mi tengono compagnia
In lunga attesa.
Vivere per non morire
È morire.
Trovo, infine, nel POSTO DELLE CILIEGE espressioni di rara efficacia, spontaneità
profonda . Mai un balbettìo, una indecisione linguistica , lo sforzo di
ricercatezza, ma delicata proprietà di parole ed immagini che non infonde nel
lettore il desiderio di allontanarsi dalla lettura, quanto, piuttosto, un
riavvicinarsi, perché, in fondo, il crudele mondo della Morte è il senso della
Vita e della felicità ( quella terrena, se si raggiunge, almeno).
Liana De LUCA
IL POSTO DELLE CILIEGE
Genesi Editrice-Torino